I film di Baz Luhrmann e di Andrew Dominik sono l’occasione per ritornare sulla rappresentazione di Elvis e Marilyn al cinema. Perché le cose non si sono fermate con la loro morte. Al contrario, siamo all’overdose. Nella costruzione e demolizione del loro mito, i due autori eludono il mestiere, come se si potesse trascendere, come se non ci fosse bisogno di ‘azione’, come se ci potesse semplicemente dilettare di quelle presenze magnetiche.
Due ritratti senza rilievo che hanno la meglio sul loro stato semi-divino. Due discese all’inferno che non tengono mai conto della bellezza dell’invenzione, della loro ricerca artistica e umana. Non tengono conto delle intenzioni e delle motivazioni, della loro parte di decisione, perché Elvis e Marilyn sapevano bene cosa stavano facendo. Vestiti di luce o di cuoio nero, sul palcoscenico o sullo schermo, fuggivano il loro destino e donavano tutto quello che avevano. Quando li prenderemo finalmente sul serio? Quando saremo finalmente all’altezza del loro gesto artistico?
Hellvis
Che cos’hanno in comune Elvis e Marilyn?
Una fotogenia insolente, avremmo detto ieri provando a essere romantici. Più prosaicamente, condividono oggi l’Authentic Brands Group (ABG), società newyorkese che amministra la loro immagine e il loro patrimonio culturale. Elvis e Marilyn si guadagnano la vita anche dopo la morte.
“Marchi premium” dell’azienda, negli anni i loro volti sono stati stampati su tazze, scatole, t-shirt e ogni altra diavoleria fino all’esaurimento. Sono diventati una sorta di onomatopea, un bebopalula e un poupoupidou figurativi, un segno banale che ha perso ogni sostanza. Ma i cassetti della ABG sono pieni anche di progetti nobili: film, libri serie, pagine Facebook, perché Elvis e Marilyn, morti da più anni di quanti ne abbiamo vissuti, non hanno decisamente il diritto all’oblio. Se da vivi hanno rivoluzionato la cultura popolare, le cose non si sono fermate post mortem. Al contrario, le loro figure hanno ossessionato e ‘lavorato’ l’America ai fianchi, come forse mai prima. Tutto è stato detto, tutto immaginato, tutto realizzato, dalla commercializzazione di ‘reliquie’ alle tesi più folli, dal rapimento degli alieni (Elvis) all’iniezione fatale della CIA (Marilyn). Cosa potremmo mai dire di nuovo e di altrettanto fantasioso su Elvis Presley e Marilyn Monroe, serigrafati da Andy Warhol e scolpiti nella cera da Madame Tussauds?
Con loro non abbiamo mai finito, non ne veniamo a capo, non ci rassegniamo alla tragicità del loro destino e qualcuno rifiuta addirittura di credere al loro decesso. È quello che accade alle leggende, del resto, quell’impressione duratura è più forte e più grande della vita, con buona pace dei fatti e della loro trivialità.
Cortocircuitando glamour, sex appeal e quella vulnerabilità che ha siglato il loro mito, ogni epoca ha sentito il bisogno di risvegliare la loro immagine, di ‘riesumarli’ per riflettersi in loro come in uno specchio e di rifare l’autopsia dei loro cadaveri, di fare un atto di contrizione (raramente) o più tristemente di risollevare la loro immagine e la loro posizione nella cultura popolare a colpi di souvenir, memorabilia, hotel dedicati, esposizioni interattive e altri prodotti derivati. D’altronde le vecchie generazioni muoiono e bisogna spingere il ‘marchio’ verso quella più giovane.
Così il 2022 ha prodotto Elvis di Baz Luhrmann e Blonde di Andrew Dominik, due progetti fuori misura e profondamente diversi, un biopic e un anti-biopic, che hanno un’intenzione comune (e forse involontaria): sminuire i loro protagonisti, prescindendo la loro arte invece di comprenderla. Loro malgrado, ridimensionano quello che per loro contava di più. L’opera di Elvis e Marilyn si dissolve negli avvenimenti della loro vita, come accade a chiunque, come fossero chiunque. Ma non tutti i ragazzi possono diventare Elvis e non tutte le ragazze possono essere Marilyn. Elvis e Marilyn erano l’illustrazione perfetta del sogno americano perché erano unici, dotati di qualcosa che nessun altro aveva in quel secolo, una grana nella voce che serviva da sola a definire l’America o a farla finita con l’amore. Né Luhrmann, né Dominik ci spiegano cosa fosse quel sortilegio, quel talento. Per i due autori si tratta più di degradazione fisica e psichica, di droghe e di sessualità.
Si narra principalmente una discesa all’inferno e “nel mezzo del cammin” Elvis e Marilyn appaiono per la maggior parte del tempo difformi, sfigurati, quasi impotenti…
Morbosità o incompetenza?
Le due probabilmente.
Le due opere passano completamente sotto silenzio il loro mestiere, come facevano quello che facevano. Elvis (Austin Butler) e Marilyn (Ana de Armas) non sono mai al lavoro, se non in scene (una a testa) che mostrano il loro talento di artisti e sono tra le più memorabili.
Luhrmann concede a Elvis un solo momento di creatività, in cui dirige la sua orchestra in un nuovo arrangiamento di “That’s All Right” per il suo primo spettacolo a Las Vegas. Elvis sapeva bene cosa la gente voleva ascoltare e amava darglielo, la sua ambizione non era imposta da Parker, era una fiamma ardente. Trafficando con miti e favole, il regista di Moulin Rouge si concentra sulla sessualità oltraggiosa ed esplosiva di Elvis, abbassandolo a un fenomeno visivo e scordandosi quello musicale. Peggio, addirittura gonfia la sua musica con nuove interpretazioni, quasi non si fidasse del potere dell’originale.
I critici di ieri, quelli che scrissero di Elvis dopo la sua morte nel 1977, sarebbero sbalorditi di scoprire oggi che la sua reputazione ha bisogno di una tale iniezione di energia. Per loro non era solo rock’n’roll, Elvis aveva cambiato la storia (della musica) e nel farlo era diventato storia.
Sul fronte Blonde, Dominik sposa un’incarnazione univoca e riduttrice di Marilyn, quella di una femminilità alienata, facendo sadicamente dei sacrifici narrativi. Laddove il libro di Joyce Carol Oates dettagliava ampiamente i ruoli dell’attrice, il suo amore per la poesia, i suoi corsi di recitazione e la maniera in cui costruiva i suoi personaggi, il film evita in gran parte di raccontare la sua vita professionale. Il che è pazzesco, se si pensa a quanto i dubbi di Marilyn Monroe si fossero cristallizzati sull’esercizio della sua arte, e deplorevole considerando che questo è il campo in cui continua a essere sottovalutata. Gli unici momenti ammessi da Dominik sono quelli della sua prima audizione e della sua analisi della pièce di Arthur Miller, che legge meglio di quanto avrebbe potuto fare lui.
Invece di combattere lo stereotipo, i due autori lo cavalcano, semplificando la complessità di Elvis e di Marilyn, il cui talento principale sembra risolversi nell’erotismo. Il trattamento è quello di due idiot savant, due icone con cui le nostre nonne e i nostri nonni volevano soprattutto andare a letto, marionette preda di ragazzine urlanti o di uomini abusanti, di un sinistro colonnello Parker o di un leggendario Joe DiMaggio.
L’idea allora è quella di insinuare e questionare quella ‘certa idea’ che la nuova generazione, i fan (vecchi e giovani) e gli spettatori più sprovveduti si sono fatti attraverso l’immagine rinviata da Elvis e Blonde.
È vero che qualunque film, documentario, biopic, imitazione, citazione, ammiccamento o delirio finzionale può arrivare al massimo alle porte del mistero ma lo è altrettanto che abbiamo rinunciato a interrogarlo, seppellito com’è sotto il frastuono culturale, la glossolalia del denaro, della pubblicità, dei tabloid, dei best-seller, delle leggende urbane, del passaparola di una storia che esiste precisamente perché non ne esiste una.
Una bionda all’inferno
Come sono passati alla storia Elvis e Marilyn? Come li ricordiamo o come li abbiamo dimenticati? Ma soprattutto cosa ne ricaviamo dal cinema di Luhrmann e di Dominik?
L’impressione, lasciando la poltrona o il divano, è quella di due dinamo sessuali, due divi tutto sommato un po’ scialbi e manipolabili, virtuosi della promiscuità piuttosto che di una forza (musicale e cinematografica) trasformatrice.
Quando a un passo dalla fine (del film), Elvis confessa a Priscilla la sua paura di essere dimenticato, il timore terribile di non aver lasciato niente di duraturo dietro di lui, dobbiamo presumibilmente pensare che si sbagli, di grosso, perché la sua leggenda vivrà per sempre, eppure Luhrmann non la illumina mai, né tanto meno sembra preoccupato di illuminare il talento su cui quella leggenda è costruita. I sedimenti di mitologia e kitsch che secondo Greil Marcus, critico musicale che racconta il rock come nessuno, impediscono di ‘ascoltare’ Elvis, sono esattamente quello che intriga Luhrmann. Del resto, le feste erano il suo unico interesse per il grande Gatsby.
Ma quello che contava veramente di Elvis (e per Elvis) era la sua musica, un gruppo di registrazioni comprese tra 1954 e il 1958 che, in misura non trascurabile, hanno cambiato il mondo. L’eredità di quella musica è tanto formidabile quanto complicata, ma Elvis è troppo facilone e frenetico per fare i conti con questa complessità.
Allo stesso modo fallisce Dominik nel riprodurre quel monologo interiore, labirintico e vertiginoso del libro omonimo di Oates, che rendeva giustizia, anche se in termini feroci e allucinati, alla densità della sua eroina. Il regista australiano prende la direzione opposta, la “complessità” è appannaggio della messa in scena, e ad Ana de Armas è richiesta un’interpretazione semplicemente mimetica. La performance, passata lo stupore iniziale per il ‘numero d’attrice’, chiude il mito nella riproduzione infinita della sua immagine, lo aveva già fatto Andy Warhol con più ironia.
Al debutto di Blonde e della carriera di Marilyn Monroe, l’attrice fa il suo provino davanti a una commissione un po’ scettica, sorpresa dal suo stile di recitazione, come se l’Actor Studio fosse un modello di sobrietà. Il verdetto finale: “Sembra una pazza”. Ed è esattamente quello che ci rimane di Marilyn alla fine di Blonde. La complessità della star? La fantasia dell’attrice? La comicità radiosa che ripercuoteva la superficie dei suoi film? Dimenticate. Solo le disgrazie di una donna-bambina, spezzata psicologicamente dalla dominazione maschile, contano per l’autore, in un crescendo di umiliazioni, di orrori e di compiacenza malsana. Se nella versione Luhrmann, Elvis è un rivoluzionario accidentale che diventa attrazione da fiera, da giovane scapestrato e affamato a obeso decadente e grottesco, nella storia che decide di raccontare Dominik, Marilyn è una donna, una donna che è soltanto una vittima e mai un’attrice (della sua vita).
La parte di verità di questa narrazione ciclotimica diventa ossessione e delirio sadico che ricompone scrupolosamente il mito per farlo meglio a pezzi. Il corpo attoriale è ridotto a un corpo-martire umiliato e infantilizzato dentro un caos cosmico di flash e dissolvenze incrociate, di colore e di bianco e nero, di un formato e di un altro. Non esita davanti a niente Dominik, indugia nei momenti intimi e degradanti della sua eroina, è indecente come il suo John Fitzgerald Kennedy. Alla loro avventura, fortemente fantasticata e cristallizzata nell’immaginario collettivo dalla canzone “Happy Birthday Mr. President” spetta il passaggio più crudo e doloroso del film.
Le intenzioni dell’autore sono evidenti, abbattere l’immagine monolitica della diva, perpetuata da poster e foto sorridenti, per complessificarla. Nell’impresa le confisca però ogni capacità d’azione e la sua verità, quell’artistica, che tirava dalla parte della commedia, l’unico genere in grado di cogliere appieno il suo genio e di impiegarlo pienamente dentro l’onirico raso rosa di Gli uomini preferiscono le bionde o nel plissé candido di Quando la moglie è in vacanza. Per lei, geneticamente predisposta alla malinconia, Billy Wilder allestisce la suprema finzione della commedia (A qualcuno piace caldo), con ‘stupore’ di Andrew Dominick che la chiude con Arthur Miller in un teatro, come se fosse l’unico modo per prendere sul serio una bionda.
Se Elvis nutre almeno un affetto sincero per il suo soggetto, con Blonde siamo completamente altrove, a un mancato appuntamento con l’attrice. Ma in un caso come nell’altro non capiamo mai veramente perché le ragazze che non si recavano ai concerti di Elvis Presley per lanciare lingerie profumata, si entusiasmassero tanto per i suoi dischi nella solitudine della loro cameretta, i ragazzi pure, o perché Marilyn Monroe è per sempre polvere di stelle che si deposita su ogni pensiero e su ogni parola quando sogniamo le attrici. È sul fondo di Marilyn che pensiamo a tutte le altre.
I film ci lasciano con un sentimento di non incontro. Una mancanza che è facile soddisfare visionando il primo video di Elvis o di Marilyn su YouTube. Ascoltate Elvis, guardate Marilyn, è tutto lì, anche se non sappiamo dire cos’è. Per dirlo serviva un regista scettico nei confronti degli eccessi o qualcuno come Greil Marcus. La sua arte critica consiste nel rivelare quello che in un 45 giri è paradossalmente inaudibile, non qualcosa che sente solo lui ma che sentiamo tutti e che solamente Marcus sa formulare come tale. La sua prosa, appassionata e onnivora come la musica che ama, ha assimilato il destino di Elvis Presley a quello di “Moby Dick”.
Non dareste qualsiasi cosa per ‘vedere’ il suo film?
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