Novant’anni fa, precisamente il 6 agosto del 1932, veniva inaugurata la prima edizione della Mostra del cinema di Venezia all’Hotel Excelsior del Lido. Il film che diede il via a quella storia fu Il dottor Jekyll (Dr. Jekyll and Mr. Hyde), diretto l’anno prima da Rouben Mamoulian e tratto dal celeberrimo romanzo di Stevenson.
Mamoulian, armeno trasferitosi negli Stati Uniti, era un genio: regista teatrale soprattutto di musical, dopo quasi un decennio di successi tra Inghilterra e USA, si gettò nel cinema nel ’29, ovvero appena l’avvento del sonoro rese decisiva la sua capacità di risolvere i problemi tecnici legati alla ripresa in contemporanea alla registrazione del suono, potendo sfruttare l’amore per il musical come grimaldello, fin dal suo esordio Applause (1929). Per capire perché Mamoulian merita l’appellativo di genio basterebbe vedere l’inizio di Il dottor Jekyll.
Lo sguardo dentro
Dopo i titoli di testa, sulle note della Toccata e fuga di Bach, l’inquadratura si apre sull’organo che stava suonando quelle note. È una soggettiva del suonatore, sottolineata dal mascherino tondo che delimita l’inquadratura e resa evidente dall’ombra del soggetto sull’organo. Il maggiordomo bussa e rivela che l’uomo di cui seguiamo lo sguardo è proprio il dottor Jekyll, atteso a un convegno universitario. Si alza e da qui la soggettiva diventa un movimento di camera stupefacente che attraversa tutta la casa, si ferma davanti a un (finto) specchio in cui il maggiordomo aiuta il protagonista a vestirsi (Frederic March, premio Oscar per l’interpretazione), continua fuori, sulla carrozza che lo attende per andare all’università e prosegue per tutto il viaggio, fino all’ingresso all’ateneo, nell’aula magna dove si svolge l’incontro, di fronte a colleghi e studenti.
Non è un piano sequenza, ci sono piccoli tagli per scandire il tempo e soprattutto permettere alla macchina da presa di cambiare posizione, ma l’effetto è incredibile: com’è stato possibile realizzare un movimento simile senza carrello (i pavimenti sono in vista) e senza ovviamente steadycam nel 1931? Probabilmente è un dolly, forse una gru, abbassata fino ad altezza di sguardo e mossa come fosse un carrello. Al di là dello stupore estetico, una sequenza simile posta a inizio film dice subito qualcosa di preciso sul tema dell’opera, tanto quella letteraria che il suo adattamento, ovvero che si sta parlando del modo in cui il personaggio vede il mondo e sé stesso, che la divisione della sua anima in Bene e Male è un fatto prevalentemente di sguardo, di apparenza, di ciò che vediamo, di come lo vediamo, di come ci vedono gli altri.
Il trucco c’è e (non) si vede
E infatti, quella soggettiva torna nei momenti chiave del film, ovvero le trasformazioni di Jekyll in Hyde, soprattutto la prima nel laboratorio è assolutamente memorabile: Jekyll guarda la pozione che ha appena preparato, la camera indugia sul bicchiere e poi si allarga a rivelare il dottore di fronte allo specchio. Beve e subito si porta le mani alla gola come si bruciasse: da quel momento, il suo volto si trasforma a vista d’occhio, i colori e lineamenti cambiano, sviene e intorno a lui tutto rotea mentre gli sovvengono immagini che rimandano alla sua sessualità repressa dal puritanesimo. Quando il girotondo finisce, l’uomo si risolleva e davanti allo specchio vediamo un uomo dalle sembianze scimmiesche, Hyde.
Mentre le trasformazioni seguenti rivelano un uso accortissimo delle dissolvenze incrociate, questa trasformazione resta sbalorditiva e il suo segreto è rimasto ben custodito da Mamoulian per parecchi anni, fino alla pubblicazione nel ’69 di The Celluloid Muse, una raccolta di interviste a registi hollywoodiani curata da Higham e Grenberg: qui, il maestro spiega come il truccatore Wally Westmore, praticamente esordiente, applicò una serie di strati di colori a contrasto sul viso di March che, a seconda della variazione di luce e dei filtri usati per stampare la pellicola, reagivano in maniera diversa, apparivano o scomparivano, restando il trucco invisibile grazie al bianco e nero.
L’uomo e lo schermo divisi
In un’epoca in cui l’avvento del sonoro aveva messo in difficoltà i registi e le possibilità espressive dell’immagine, Mamoulian continuava a lavorare su di esse, credendo fermamente che la forma è il contenuto (per esempio, guardate il successivo Amami stanotte oppure i suoi lavori in Technicolor, che lui usò per primo in Becky Sharp nel ’35). Per esempio, come rendere stilisticamente il racconto di un uomo diviso in due, di un mondo e di una realtà che in quella divisione si guardano? Usando lo split-screen, la tecnica della divisione dello schermo in immagine simultanee.
Non è la prima volta che veniva usata, fin dagli albori del cinema si sono viste immagini dentro altre immagini, di solito però con un approccio diverso, come sogni o desideri o fantasie, spesso usando il mascherino come una finestra dentro l’immagine principale. In Il dottor Jekyll, Mamoulian – coadiuvato da Karl Struss alla fotografia e William Shea al montaggio – divide lo schermo in diagonale più volte per mostrare la contemporaneità di due azioni diverse o personaggi e soprattutto per sottolinearne la separazione sociale e culturale, per dare all’inquadratura la stessa natura bipolare del personaggio di Jekyll, mostrando il confronto tra la fidanzata Muriel (Rose Hobart) e la prostituta Ivy (Miriam Hopkins) o tra gli ambienti dell’Accademia e i bassifondi in cui sguazza Hyde.
Quando il 6 agosto di novant’anni fa, gli spettatori lidensi si goderono lo spettacolo del primo festival di cinema al mondo, lo fecero con il film di un genio che aveva dimostrato al mondo che anche il cinema commerciale e quello hollywoodiano in particolare, non solo le avanguardie russe e francesi, potevano continuare a inventare forme e tecniche dentro le consolidate forme narrative. E che la creatività non si sarebbe fatta ingabbiare dalle complesse e ingombranti tecnologie per registrare il suono, come molti avevano presagito.