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    Home » Cinema » Dentro la scena: I diavoli di Ken Russell (1971)

    Dentro la scena: I diavoli di Ken Russell (1971)

    Scopriamo insieme I diavoli di Ken Russel, film che fece scandalo e che a più di 50 anni dalla sua uscita non smette di sconvolgere.
    Emanuele RaucoDi Emanuele Rauco5 Marzo 20226 min lettura
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    Per parlare all’interno di questa rubrica di un film che lo scorso anno – il 2021 – ha compiuto 50 anni, bisognerebbe parlare più delle scene sparite, tagliate e occultate che di quelle effettivamente presenti al suo interno: I diavoli (The Devils) diretto da Ken Russell è letteralmente uno dei film più maledetti e controversi dell’intera storia del cinema, bannato, censurato, oscurato fin dall’istante in cui vide l’uscita, rimasto praticamente invisibile in sala, almeno in Italia, e in versione home video.

    Liberate i diavoli

    Il film, al netto degli scandali di matrice cattolica, fu sequestrato e poi rimesso in circolazione, ma di fatto Warner Bros. che distribuiva il film, lo rese invisibile da noi e nel resto del mondo lo censurò e tagliò ripetutamente, tanto da aver dato vita a un movimento, Liberate I diavoli, promosso dall’associazione Red Shoes (specializzata in cinema britannico), per poter finalmente diffondere il film in sala e in Italia. Perché?
    La storia, tratta da un testo teatrale di John Whiting (ispirato a sua volta da un romanzo di Huxley), è quella realmente accaduta dei cosiddetti diavoli di Loudun, ovvero la lotta di potere tra Luigi XIII (Graham Armitage), sotto consiglio del cardinale Richelieu, e padre Grandier (Oliver Reed), che coinvolse le suore guidate da Suor Giovanna degli Angeli (Vanessa Redgrave), donna deforme e visceralmente attratta da Grandier, parroco di Loudun che non vuole cedere la propria autonomia al re. Russell però non si limita a raccontarla questa storia, così come non si è limitato a illustrare le vite che sono al centro dei suoi film – Mahler, Čajkovskij, Rodolfo Valentino, Busby Berkeley e altri -, ma la innerva del suo spirito barocco. Anzi fa molto di più: crea un meccanismo pensato per scioccare e dividere che al tempo stesso riesce a raccontare l’ipocrisia del potere e della religione. Ed è qui che casca l’asino.

    Il femore di Dio (SPOILER)

    Perché il regista inglese non si accontenta di denunciare la violenza dell’istituzione attraverso l’arma della fede, come fece sullo stesso argomento Jerzy Kawalerowicz, dieci anni prima, in Madre Giovanna degli angeli, ma crea un film orgiastico e onirico in cui praticamente ogni tabù in fatto di rappresentazione erotica e blasfema viene scientemente demolito, diventa un veicolo di liberazione culturale. Il tutto reso ancora più scioccante dalla forza estetica del regista, delle immagini di David Watkin, le scene di Robert Cartwright e i costumi di Shirley Russell, mostrando il legame tra il sesso e la religione come non si era mai visto prima e che resta ancora oggi un mistero come sia potuto diventare un film con l’egida Warner (che lo aveva comprato da Paramount). Per capire lo scandalo partiamo proprio dalle due scene incriminate, tagliate dalla versione definitiva, e reintegrate solo nel 2002 (in una versione, comunque, di difficile reperibilità). La prima a essere stata sdoganata e visibile anche online arriva nel finale del film, dopo il rogo di padre Grandier: suor Giovanna si sta punendo in modo lascivo, replicando la tortura a cui l’Inquisizione l’ha sottoposta (ossia, iniezioni di liquido bollente nella vagina), quando arriva un emissario del re. La suora è ripresa di spalle, dentro la sua cella, la macchina si avvicina velocemente a lei imitando il movimento dell’uomo che la fa girare prendendola per una spalla, i due parlano del futuro del convento ora che arriva un nuovo parroco e per “premiarla” le lascia un ricordo di Grandier, un pezzo del suo femore scampato al rogo, un femore indiscutibilmente fallico che Russell riprende in primissimo piano.
    Nella versione americana, quella che circola comunemente, la sequenza finisce qui, mentre nella versione originale il primo piano continua (si può vedere il cambio di grana con la pellicola non restaurata): nell’inquadratura entra la mano della suora che afferra l’osso, la camera la segue sempre con un piano stretto mentre lo bacia, poi si sdraia e sposta il femore nelle parti basse, mentre l’inquadratura resta sul suo viso estatico. Pochi secondi, una decina, che condensano un intero personaggio, la sua perversione mistica.

    Il corpo di Cristo

    L’apice della controversia delirante rappresentata da questo film sta nella sequenza centrale del film, la gigantesca orgia che l’Inquisizione agli ordini del re istiga, fingendo una possessione demoniaca di massa, per potersi disfare di Grandier. Non serve molto agli inquisitori per liberare le suore da ogni loro catena o remora, dando il via a una sequenza centrata sulle donne, sotto lo sguardo della madre superiora incarcerata e torturata, prima succube e poi compiacente: Russell le riprende in modo sempre più frenetico, liberando con le fantasie sessuali delle donne anche la macchina da presa, a mano, velocissima e partecipe, col grandangolo che rende ancora più onirica e insaziabile la sequenza, la quale approda al suo vertice massimo – quello in cui le forbici censorie intervengono – quando le suore staccano dal muro della chiesa il Cristo crocifisso per usarlo come oggetto del desiderio (la sequenza è chiamata confidenzialmente The rape of Christ, lo stupro di Cristo).
    Il montaggio e la messinscena sembrano quelle di un porno psichedelico, gli zoom vanno avanti e indietro come un organo che pompa sangue sempre più veloce, le musiche di Peter Maxwell Davies raggiungono un muro del suono che si scontra con il montaggio di Michael Bradsell, alternato con Grandier il quale, con la sua sposa segreta, sta celebrando una ieratica carestia in riva a un lago, ripresa con inquadrature scabre e composte, solo i suoni della natura in sottofondo; mentre il parroco prende l’ostia, un prete si masturba alla vista di un’orgia che supera ogni limite di oscenità, l’immagine deflagra e gli fa raggiungere l’orgasmo, in senso fisico e retorico. Russell lavora per scioccare, ma anche per far sì che quello shock non sia fine a se stesso, che dica qualcosa di politico allo spettatore, riuscendoci a un livello più sotterraneo di struttura: l’uso della statua come oggetto erotico porta a compimento le fantasie di madre Giovanna, che nel corso del film ha immaginato Grandier come un Cristo fisico e carnale, da cui farsi possedere (anticipando il Gesù di Scorsese in L’ultima tentazione di Cristo). Per questo, l’alternanza delle due sequenze – l’orgia delle suore e la “penitenza” di Grandier – suona come tragica e ironica al tempo stesso, creando un senso fortissimo che parte proprio dall’opposizione totale della messinscena.
    Nell’anno in cui Arancia meccanica di Kubrick sembrava aver spostato i limiti per sempre, Russell realizza un film di un vigore e di una violenza – grafica, estetica e intellettuale – che dopo 50 anni lasciano ancora a bocca aperta, perfettamente condensato dalle parole di Morando Morandini: “Al suo confronto, nove film storici su dieci sono ridicole castagne secche”.

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