All’apparizione di Crimes of the Future sugli schermi del festival di Cannes, e poi successivamente su quelli delle nostre sale, più di un critico o commentatore ha liquidato il più recente lavoro di David Cronenberg come un film già visto, di maniera, poco ispirato e banale per gli standard del suo regista. Il cineasta canadese però ha fatto della sua ultima opera il pretesto per ricapitolare esplicitamente il proprio cinema, per condensare tutti i tuoi suoi temi, il suo immaginario e soprattutto l’intero corpo cinematografico che quei temi e quelle immagini cataloga: Crimes of the Future è il film con cui Cronenberg (a cui è dedicato il primo ciclo di Quei bravi ragazzi, la rubrica Twitch di ScreenWorld in cui ogni mese si approfondirà la filmografia di un grande regista, a partire da mercoledì 5 ottobre alle 18) ha riassunto e raccolto gli elementi di tutti i suoi film.
Il corpo come vernissage
Li ha sparsi lungo la storia di un artista, Saul Tenser (Viggo Mortensen) che esegue asportazioni dei suoi tumori pubblicamente, dando valenza artistica alle aberrazioni del corpo e che si trova davanti un gruppo di persone che si sta evolvendo al punto di poter mangiare e digerire la plastica. Li ha sparsi a partire dal titolo che si rifà a quello del suo secondo lungometraggio, datato 1970, in cui un dermatologo doveva vivere in un mondo in cui una malattia della pelle aveva sterminato l’intera popolazione femminile, lo stile freddo e razionale, distaccatissimo con cui ha approcciato l’ultima porzione della sua filmografia viene da quei primi due film (anche il debutto Stereo del ’69), realizzati senza audio in presa diretta, ma con suoni e rumori che accompagnavano le parole in voice over, senza narrazione vera e propria, ma come fossero camminate dei personaggi tra gli eventi di solito già accaduti. Anche Saul e soprattutto la sua compagna e partner professionale Caprice (Léa Seydoux) camminano tra le rovine di un mondo in cui niente di ciò che conoscevamo sembra avere più una sua consistenza e concretezza, ma non perché stia sparendo, ma perché sta evolvendo, i due artisti così come l’umanità che ha scelto l’evoluzione radicale per sopravvivere non passeggiano nelle conseguenze del passato, ma nelle cause del futuro.
Ecco, Cronenberg, come suggerisce fin dal titolo, sta mettendo a sistema tutto il suo pensiero per guardare avanti, per superarlo (forse) ed evolverlo in qualcos’altro, magari non lo farà, ma le intenzioni di questo suo ultimo film paiono andare in tal senso. Ci sono le frasi da usare come bandiera – “Il corpo è realtà”, “La chirurgia è il nuovo sesso” – che però sembrano motti vuoti rispetto alla Nuova Carne (di cui tutto il film è evidentemente intriso) o ai concorsi di bellezza per organi interni evocati da Jeremy Irons in Inseparabili, ci sono le citazioni e i riferimenti puntuali, ma soprattutto c’è la constatazione che tutto quel portato teorico, filosofico, concettuale e infine pratico/artistico non serve più, perché gli anni ’80 del body horror, dei materiali inorganici che sanguinavano come vivi, del lattice che colava fluidi corporei, della materia che si scomponeva e ricomponeva alternando il disgusto alla fascinazione dell’arte estrema sono stati sostituiti dal 21° secolo del digitale, della plastica immateriale, della sintesi totale che permette la rigenerazione virtuale e immaginaria (anche nel senso di fatta per immagini, con le immagini) della carne morta. Per questo, Crimes of the Future per incamminarsi nell’arte (?) e nel cinema (?) del futuro(?) deve prima officiare il funerale del passato.
Il funerale del futuro
Questo rito funebre è l’esibizione che Saul (deposto su un lettino operatorio indistinguibile da una bara) e Caprice tengono nella prima parte, prima della mezz’ora, è una delle performance dell’artista in cui viene operato al fine di mostrare le degenerazioni del corpo come nuova forma di arte, senza creatore se non la natura e la sua evoluzione, in cui l’artista diventa il contenitore dell’arte, letteralmente. Tutta la sequenza diventa un campionario dei film di Cronenberg come li conosciamo e ce li ricordiamo, ci sono gli schermi a tubo catodico che dominano Videodrome>, gli attrezzi operatori di cui è sempre stato feticista e che diventano centrali in Inseparabili, ci sono apparecchiature biomediche che paiono uscite da Il pasto nudo, c’è l’eccitazione erotica in corrispondenza delle ferite, viste o subite, che dominava Crash. È Caprice che opera Saul attraverso un joypad “organico” che fa pensare alle pistole di eXistenz, il lavoro chirurgico fatto sugli organi interni di Saul rimanda ai moltissimi film a sfondo medico-scientifico del regista, come Il demone sulla pelle o Brood e il discorso sull’evoluzione interna che riscrive il corso della Storia è lo stesso di La mosca.
A voler continuare il gioco dei rimandi, in tutta l’opera artistica di Saul (che per questioni di salute e come conseguenza della sua arte è spesso seduto e fermo, come Pattinson in Cosmopolis), e si vede nella scena successiva all’operazione/esibizione, c’è anche la riflessione sulla celebrità di Maps to the Stars e ne potremmo trovare un’altra decina. Conta però dove questa sequenza porta il film, a cosa serve nell’economia dell’opera e del discorso che Cronenberg vuole fare: l’obiettivo è, appunto, quello di guardare al futuro, di seppellire l’arte del passato e spostarsi avanti nell’arte prossima ventura. Ed è qui che il film racconta uno scacco, la sconfitta di chi vuole usare il futuro, di chi cerca di capirlo e razionalizzarlo secondo schemi invece ancora passati: l’assortimento di esibizioni mostruose come opere d’arte, di materie organiche vive e ripugnanti in composizioni formalmente eleganti, persino di uno smembramento infantile come gesto di estetica estremista sembrano guardare all’opera di Peter Greenaway, artista multimediale che ha mescolato il cinema con le arti elettroniche, la letteratura e la pittura, prendendo l’arte del ‘500 e ‘600 per ricomporla con le nuove tecnologie.
Il razionalismo stilistico di Crimes of the Future sembra sotto sotto contraddire il percorso che fa Saul, come a sottolineare la sua resa al passato nonostante le intenzioni: quando nel finale, vuole tentare il “gesto” definitivo, sottoponendo il suo corpo alla modifica del proprio tratto digestivo e renderlo così simile a quello degli evoluzionisti, comincia a mangiare una barretta di plastica. Caprice lo riprende con una videocamera e gira in un bianco e nero digitale la sua estasi mentre riesce a mangiare qualcosa senza l’aiuto della sedia biomedica: in quell’inquadratura, in quel monocromo grigio, Mortensen replica lo sguardo di Renée Falconetti posseduta dalla trance mistica in La passione di Giovanna D’Arco di Dreyer (1928). L’azione più futurista possibile, quella che sancisce il trionfo del post-umano, riporta l’occhio al passato preistorico del cinema, al muto, all’esaltazione del primo piano, il primo atto visivo puramente cinematografico.