Prima di immergerci nella filmografia di questo giovane ma già ammirabile cineasta, è doveroso riportare qualche dato biografico che lo riguarda. Denis Villeneuve nasce a Trois-Rivières, in Québec, il 3 ottobre 1967 e studia cinema all’Université du Québec di Montreal. La sua prima fatica cinematografica è il mediometraggio di genere documentaristico REW FFWD, incentrato sul tema del multiculturalismo. Per il suo primo lungometraggio,invece, dovremo aspettare il 1998, quando decide di dirigere: “Un 32 août sur terre”. Il film si fa notare a Cannes e a Toronto ed è così apprezzato dai critici che verrà scelto per rappresentare il Canada agli Oscar del 1999, nella categoria Miglior film straniero. Da quel momento, Denis si dedicherà sempre al Cinema e tra un cortometraggio e l’altro, approderà anche ad Hollywood.
Oggi, è riconosciuto come uno dei più interessanti e promettenti cineasti della sua generazione. Secondo Villeneuve: “Il cinema è una forma d’arte che è stata progettata per andare oltre i confini. E come regista, l’unico modo in cui posso dirigere un film è quando mi sento vicino alla mia cultura. Il cinema è pop art. Non è che si tratta di cinema d’autore o no, questa è una falsa distinzione. Il cinema è cinema”. Così, il regista si è pronunciato per giustificare la poca timidezza delle sue inquadrature e delle sue storie, il sovrappeso della violenza, la delusione che i suoi personaggi lasciano nello spettatore, ma soprattutto un brillante modo di concepire la scena, la quale si stampa indelebile nella memoria. Ecco tutti i film di Denis Villeneuve dal peggiore al migliore.
10. Un 32 août sur terre (1998)
Il film è del 1998 e si tratta dell’esordio alla regia di Denis Villeneuve. La pellicola riscontrò un discreto successo al botteghino e venne presentato in molti festival internazionali, in particolare nella sezione Un Certain Regard al 51º Festival di Cannes. La protagonista è Simone, la quale dopo essere stata coinvolta in un grave incidente automobilistico, vede la morte in faccia. Così, la ragazza è decisa a dare un senso alla propria vita e decidere di avere un figlio e sceglie come potenziale padre del bambino il suo migliore amico Philippe, il quale accetta esclusivamente a patto di concepirlo in un deserto. Potrebbe sembrare un caso che il regista del moderno Dune abbia scelto di dirigere il suo primo lungometraggio in un deserto, in realtà non lo è affatto, poiché Denis Villeneuve è sempre stato affascinato dalle smisurate distese di sabbia che lo compongono e dalla forza evocativa e sensuale delle proprie dune mosse dal vento.
All’interno del film è presente un deserto di sale, luminoso e bianchissimo, talmente accesso da risultare quasi respingente alla vista. I due personaggi principali costituiscono una coppia divertente, motivata da grande ironia di sintonie ma anche da distaccata incomunicabilità, perché questo esordio marca molto le distanze che separano i due ragazzi, che queste siano fisiche o sentimentali, e il deserto, in questo, si inserisce perfettamente come contesto geografico. Il parossismo è dietro l’angolo, in quanto c’è un’esasperazione degli stati d’animo sempre pronti a scaldarsi sotto ad un caldo sole. Un cinema Indie, tipico di fine anni 90′, libero dagli schemi e da rigori, non è un caso che i personaggi si spostano e muovono come meglio credono, all’interno di un contesto lavorativo che è sostanzialmente inesistente. Lo svolgimento già di per sé è folle, ma approda ad una conclusione ancora più folle, questa risulta essere sconclusionata e senza un reale finale, il quale riveli una crescita o un mutamento delle cose o delle persone, ma forse a Villeneuve o chi per lui, andava bene così.
9. Maelström (2000)
Passano due anni e Denis Villeneuve è già pronto a tornare dietro alla macchina da presa con un nuovo film, sempre di totale produzione canadese: Maelstrom, la quale storia è bizzarramente narrata da un pesce parlante. Una sera Bibiane Champagne, una giovane donna canadese, del Québec, investe e uccide accidentalmente un uomo con la sua macchina. La ragazza, avendo avuto una vita abbastanza travagliata ed ora sommersa dai sensi di colpa, decide di togliersi la vita buttandosi nel fiume. Bibiane però viene salvata ed interpreta la sua sopravvivenza come la possibilità di ricominciare da capo. Dopo aver saputo l’identità dell’uomo che ha ucciso, un immigrato norvegese di nome Annstein Karlsen, la protagonista si innamorerà di Evian, il figlio della vittima e la sua vita cambierà del tutto. Di nuovo il cinema Arthouse nelle vene di Denis Villeneuve, il quale attraverso una tendenza sovversiva e poco convenzionale confeziona una storia folle che mischia il sentimento d’amore più profondo a delle scelte molto particolari, come quella di un narratore extra diegetico che, in questo caso, è un pesce parlante.
Come già era avvenuto con il suo film precedente, l’apertura è fortissima, perchè davanti ai nostri occhi di spettatori si palesa un incidente automobilistico, il quale sovverte completamente le convinzioni della protagonista, prima che questo evento capitasse a lei. Nel secondo lungometraggio di Villeneuve, la scelta della musica è operata nei minimi dettagli, come quando si decide di accostare alla sequenza di un’interruzione di una gravidanza, una canzone degli Aqua: “Good Morning Sunshine”, la quale ci dice che un nuovo giorno è bello e gioioso, il tutto a sottolineare il contrasto tra ciò che vediamo (brusco e violento)e tra che ciò che sentiamo (lieto e ritmato), scelta rischiosa ma dalla resa stimabile da parte di Villeneuve che sprigiona tutta la sua rabbia e sfrontatezza giovanile. La pellicola è un susseguirsi di spazi: strade, locali, bar, caffè, ma anche di momenti della giornata: ore piccole, la notte, le prime luci del mattino, elementi necessari a ricostruire con estrema cura l’identità della sua protagonista, le sue sfumature, cosa pensa? Cosa farà? Dove andrà? E cosa ne sarà di lei, a seguito di numerose, ardue, scelte?
8. Enemy (2013)
E’ il 2013, anno fatidico per Denis Villeneuve, favorito dal suo inserimento ad Hollywood. La carriera del regista ha spiccato il volo anche grazie all’uscita, nello stesso anno, di ben due lungometraggi di produzione statunitense, il secondo dei quali si intitola: Emeny. La storia del film è ambientata a Toronto. Lungo le sue strade, vive il docente universitario di Storia Adam Bell, il quale vive un rapporto non sereno con la sua compagna. Un giorno noleggia un film, su consiglio di un collega. Al termine della visione è decisamente turbato: nel film c’era un attore in un ruolo secondario che gli assomiglia in modo assoluto. Cerca di identificarlo, si chiama Anthony Claire, e riesce a sapere dove abita scoprendo anche che hanno la stessa voce. Da quel momento ha inizio per lui un’ossessione che coinvolgerà anche le loro compagne.
Villeneuve, paradossalmente, dopo aver mosso i suoi primi passi verso il Continente americano, torna al suo Canada, dalla parte anglosassone, però; Toronto è una metropoli fredda e cupa ma inquadrata dal regista con una tale sensualità ed indulgenza da sembrare erotica: ogni sua torre e palazzo è sinuoso e mai spigoloso, mai respingente, ti avvolge con la sua altezza. Ciò a rappresentare anche il forte contrasto determinato dalla solitudine che è la causa dell’alienazione dei due protagonisti, contrapposta alla moltitudine di anime ed identità che vivono una città enorme come Toronto che fa suonare impossibile questo sentimento di solitudine all’interno di un contesto così vasto. Come puoi sentirti solo se sei costantemente circondato da qualcosa? Eppure, Villeneuve ci racconta questo, cioè l’indagine da parte di due uomini, volenterosi di comprendere la loro sessualità, soprattutto in relazione alle rispettive partner. Enemy è un film sui doppi, così come la letteratura, per secoli, si è interrogata sul significato del sosia e del suo ruolo all’interno della nostra esistenza, anche il film di Villeneuve lo fa.
Attraverso uno strepitoso humor nero, il quale dà vita ad un racconto metropolitano rarefatto, che si interroga sul valore delle nostre azioni quotidiane: ciò che diciamo e come lo diciamo, e su come questo abbia una scarsa ripercussione in coloro che ci osservano o ascoltano. L’ironia sta nel non prendere troppo sul serio il valore del proprio lavoro, poiché questo potrebbe non avere lo stesso peso per gli altri, come ce lo ha per noi, e questa ripetitività che scandisce il quotidiano è la morte che conduce alla sottovalutazione dell’esistenza. La sessualità maschile nella società contemporanea e la progressiva repressione che conducono all’annullamento del maschio, al quale non resta che la voglia di comandare sugli altri, in quanto impossibilitato a comprendere chi egli sia in realtà.
7. Prisoners (2013)
Per la sua prima produzione statunitense, il regista Denis Villeneuve chiama a sé grandissime star del calibro internazionale per dirigere un thriller poliziesco dai richiami Demmiani. Nella apparentemente tranquilla provincia americana ,due bambine di sei e sette anni, Anna ed Eliza, escono a giocare insieme e svaniscono senza lasciare traccia. I genitori, fra di loro amici, reagiscono nei modi più disparati e disperati. Keller, il padre della piccola Anna, comincia una caccia all’uomo senza esclusione di colpi, mentre sua moglie Grace si imbottisce di psicofarmaci per attutire il dolore e lo sgomento; Franklin, l’altro padre, cerca di non farsi travolgere dalla sete di vendetta di Keller, la moglie Nancy invece pare disposta ad appoggiarne i modi estremi. Il detective Loki avvia le sue indagini e comincia a chiedersi di chi sospettare, dato che anche il comportamento di Keller si fa sempre più equivoco. La cittadina di provincia rivela di avere più scheletri nell’armadio di quanto si potesse immaginare.
Il film di produzione statunitense si imprime nella memoria, in quanto riveste i propri personaggi di forte realismo: in primis Loki, questo poliziotto sfortunato e scontroso nei confronti della vita, forse perché questa gli ha teso troppe trappole. Egli cerca il colpevole, ma fa difficoltà, in quanto nulla appare come sembra e la narrazione gli viene costruita attorno, come un palinsesto pesante e ferroso ed estremamente frustrante. Villeneuve compone un thriller della frustrazione, nel quale la pioggia che si infrange sui vetri delle automobili, non lascia trasparire nessun segno di speranza, ogni cosa è cupa e destinata a spegnersi. Il poliziotto ha il forte desiderio di redimersi, ma questa gioia non è disponibile a manifestarsi se non attraverso un’estenuante sofferenza, la conseguenza è un atteggiamento di malessere che si sperimenta specialmente nei confronti delle vittime e della sete di vendetta.
Il fulcro tematico si sviscera attraverso la comprensione del mondo e della sua vastità, Villeneuve esprime questo concetto mettendo al centro dell’attenzione una misera e minuscola cittadina della Pensylvania e la rende teatro di tragedie e perdite. La città diventa paesino, lì dove tutti si conoscono si consumano i peggiori crimini; lì dove tutti si conoscono si nascondono i peggiori criminali. In tal senso, il lungometraggio di Villeneuve si mostra come un’ amara parabola di catabasi di una nazione: l’America, che ha perso la fede in se stessa, nella quale domina il caos su un ordine incapace di catturare persino il carnefice.
6. Sicario (2015)
Terzo lungometraggio da parte di Denis Villeneuve alla ricerca dell’America padrona e responsabile delle proprie azioni. Il film si apre con un’imboscata dell’FBI, la quale rivela molto più di quanto era previsto: lo spettacolo orripilante di decine di cadaveri nascosti nei muri e con la testa sigillata in sacchetti di plastica. Per allargare la squadra che va a caccia dei mandanti di quel massacro, la CIA arruola Kate. La giovane agente dell’FBI ha partecipato all’imboscata rivelatrice, anche se lei è un’esperta di rapimenti viene ammessa all’interno della squadra che combatte da tempo contro il cartello messicano della droga. È l’inizio di una discesa agli inferi che coinvolgerà tutti i servizi segreti statunitensi e la coscienza di un Paese, disposti a trasgredire ogni regola e a sacrificare ogni parvenza di umanità pur di mantenere il controllo ma senza alcuna volontà di imporsi sul male.
Sicario è un viaggio terrificante all’interno dell’animo umano e le molteplici ombre che lo costituiscono. Villeneuve prende i pezzi del puzzle e mettendoli in ordine dirige una pellicola sull’attesa fatta di contrasti, di ideologie, di tentativi di individuare chi veramente è il colpevole e su chi far ricadere le colpe di tante tragedie. Sicario si interroga sulla verità delle istituzioni e del valore che queste hanno all’interno della società, ma anche rovescia le regole che determinano chi è buono e chi non lo è, o addirittura chi appariva come tale. Nuovamente un thriller della frustrazione, il quale mette una donna al centro di una vicenda, per lo più maschile e gioca con i ruoli di genere, con le debolezze e con i principi impostati dell’essere umano.
Il regista racconta con grande spietatezza un mondo di deviazione e di fine di percorsi di vita, involontariamente annichiliti. Villeneuve, con grande grazia ed eleganza ma anche statica freddezza inquadra questo cast magistralmente gestito che si muove all’interno di un contesto privo di qualsivoglia forma di vita, in quanto la tensione scaturita da quei luoghi è il manifesto dell’inquietudine, di qualcosa che, da lì a breve, si concluderà nel peggiore dei modi. Suoni ed immagini si susseguono misteriose e sfuggenti dando vita ad un deserto (ancora una volta) della sottrazione, poiché esso non dona niente ma priva soltanto.
Infine, il Messico, qui analizzato con una massiccia metafora che si esprime attraverso una bestia, che sia uomo, nazione o popolo che contiene un terribile mistero. L’americano invasore e controllore è come un parassita, pronto ad insidiarsi su questa bestia feroce, il loro stare, è il suo destarsi e il suo lamento. Così, essa cerca di scrollarsi di dosso queste creaturine, le quali, una volta che l’essere si è nuovamente riaddormentato, sono pronte a stabilirsi in quei luoghi, ancora ed ancora. Peccato che questa bestia sembra non riposare mai, non dormire e di conseguenza, sempre pronta ad attaccare chi le arreca disturbo.
5. La Donna che canta (2010)
È il 2010 e Denis Villeneuve dirige un film intimo nello spirito, perché pone al centro dell’attenzione un viaggio: parte dal suo Canada e finisce nello sperduto medio Oriente. Racconta la storia di due gemelli, Jeanne e Simon, i quali a seguito della morte della madre Nawal, scoprono alla lettura del testamento di avere un fratello e un padre ignoti che vive a Beirut. Dei due, solo Jeanne è decisa a scoprire la verità e di partire per Deressa, dove la madre compì i suoi studi universitari. Le ricerche della figlia procedono di pari passo con uno sguardo al tragico percorso giovanile della madre, entrambi diretti verso la verità sui parenti scomparsi.
Villeneuve con La donna che canta dirige un perfetto film di esterni. Il regista pone al centro dell’attenzione un viaggio, che come sempre, non è semplicemente uno spostarsi per conoscere qualcosa ma è anche per scoprire qualcosa: la verità del nostro passato, talvolta scomoda, ma sempre necessaria. Villenueve inquadra il viaggio di un incontro: quello tra due mondi, due continenti, l’occidente e l’oriente, ma anche l’incontro tra il passato della protagonista, sua madre, ed il suo presente, quello nel quale lei sta vivendo. Il primo è magnificamente rappresentato dal miscuglio di suoni e di immagini e dalla forte volontà di associare, ancora una volta, una canzone occidentale: “You and whose Army” dei Radiohead, alle strade polverose e scarsamente asfaltate del medio Oriente, creando un contrasto di culture e di ideologie fortissimo e strabiliante.
L’idea, poi, di non precisare la locazione geografica favorisce un sentimento generalizzante e non polarizzato di responsabilità e di sensi di colpa di noi occidentali nei confronti del medio oriente oppresso e deficitario. L’eleganza della narrazione di Villeneuve sta anche e soprattutto nel catturare la vera anima degli attori, la loro essenza, egli la conosce ed attraverso differenti punti di vista, secondo diversi piani temporali, analizza il rapporto familiare a discapito dell’incompatibilità e nonostante la distanza sia geografica sia° sociale. La Donna che canta è la testimonianza di un racconto, il quale narra di quanto sia ancora radicato il concetto di manipolazione nei confronti dei più deboli, il controllo dato dal fanatismo religioso ed il ruolo della donna all’interno della società occidentale e di quella orientale. Il film è un’opera che riporta al realismo primordiale del Cinema, crudo e diretto, ma è anche un film che come la vita, attraverso una sinergia perfetta tra ciò che vedo e ciò che sento, incanta di straordinaria bellezza.
4. Arrival (2016)
Presentato in concorso alla 73° mostra del Cinema di Venezia, Arrival è un film di fantascienza, genere da cui Villeneuve era sempre rimasto affascinato, ma del quale non aveva mai trattato direttamente. Louise Banks, linguista di fama mondiale, è madre inconsolabile di una figlia morta prematuramente. Un giorno, giungono sulla terra dodici navi aliene in attesa di contatto. Louise, massima esperta in materia, è reclutata dall’esercito degli Stati Uniti insieme al fisico teorico Ian Donnelly. La missione è quella di penetrare il monumentale monolite ed interrogare gli extraterrestri sulle loro intenzioni. Louise dovrà presto trovare un alfabeto comune per costruire un dialogo con l’altro. Il mondo fuori intanto impazzisce e le potenze mondiali dichiarano guerra all’indecifrabile alieno.
Arrival è un gigantesco gioco di specchi per coloro che nel cinema cercano il sempre imprescindibile elemento umano. Talvolta per parlare di umanità è necessario avere un confronto, uno scontro tra diversità che non scaturisca la paura di chi riflette ma che racchiuda in sé la ricchezza che conduce alla conoscenza e alla progressione. Arrival è un film determinato a lanciare un messaggio universale contro l’ottusità della mal ragione e si schiera dalla parte di chi favorisce l’abbattimento delle barriere, di quei muri che noi stessi abbiamo edificato, e che ora, con tanta fatica, fatichiamo a mantenere eretti. La bellezza di Arrival è spesso accidentale, le astronavi quasi sempre sullo sfondo, a disturbare dialoghi e primi piani. E’ un film profondamente intimo, che si interroga sulla fallosità della vita, sui nostri errori del passato ma anche del presente, poiché se la vita è ciclica e palindroma, questi sono destinati a ripetersi. In che modo d avremmo potuto agire diversamente, secondo quali criteri di divisione avremmo fatto una scelta piuttosto che un’altra?
Villenueve si fa condurre dalla parola e dalla forza del linguaggio, crede nella potenza del logos e della magia che essa sprigiona, fonte inesauribile e mirata ,volta a creare o a distruggere. In questo senso, Arrival veicola un concetto di pace nel mondo, da salvare attraverso la comunicazione , l’empatia nei confronti della diversità, intesa in tutte le sue sfumature, la quale fa approdare l’umanità verso un futuro più roseo e sereno. Villeneuve si abbandona alla storia e lascia che sia essa a dettare il ritmo, il tono, l’atmosfera. E fa economia: nonostante tutte le sue aspirazioni da film apocalittico e globale, Arrival è sostanzialmente statico, tutto girato in tre ambientazioni due delle quali al chiuso, gli alieni più presenti nei discorsi tra umani che in scena. In un mondo ideale Arrival, con i suoi messaggi di ascolto e comprensione del diverso, diventa un simbolo, un manifesto ideologico, politico e sociale.
3. Dune Parte Uno (2021) & Dune Parte Due (2024)
Sarebbe difficile pensare, oggi, che Denis Villeneuve, regista canadese, nel 2021 abbia preso sufficiente coraggio per caricarsi sulle spalle un’impresa che sembrava titanica. La fatica stava nel riprendere un soggetto di un testo letterario importante, come la serie di romanzi scritti da Frank Herbert e trasporli in un’opera di tale portamento ed eleganza, sul grande schermo. Consapevole del fatto che, già in passato cineasti del calibro di David Lynch e di Alejandro Jodorowsky ci avevano provato, approdando o a scarsi risultati o addirittura a risultati nulli, non restituendo mai appieno la maestosità epica del lavoro originale. Nel sistema feudale che domina l’universo nel futuro, il potere è nelle mani di un imperatore sotto il quale lottano tra di loro delle importanti casate.
Sul desertico pianeta Arrakis si trova la Spezia, sostanza preziosa per una varietà di motivi. Al Duca Leto di casa Atreides, viene affidato il controllo del pianeta, però si sta approntando una congiura per eliminarlo. Leto ha un figlio: Paul, il quale è dotato di particolari poteri che sta sviluppando grazie all’aiuto di sua madre Lady Jessica. Anche lui finisce quindi con il diventare un ostacolo da abbattere. Avvenuta la congiura e in preda del deserto, Paul e la madre Jessica dovranno imparare a sopravvivere e a convivere con il popolo ospitante: i Fremen. Il secondo capitolo della storia vede l’ascesa e la scalata gerarchica di Paul e del suo costante controllo del popolo assuefatto dal potere, così facendo si dovrà scontrare con l’amore per Chani, in una costante lotta interiore senza esclusione di colpi.
Attraverso Dune, Villeneuve fa due cose fondamentali: la prima è il grande pregio formale e la ricercatezza artistica che costituisce la facciata superficiale, la quale riempie gli occhi di meraviglia e la mente di stupore; la seconda, invece, è un’ulteriore e necessaria analisi sull’umanità, il futuro ed il ruolo dell’essere umano all’interno del grande disegno naturalistico del pianeta Terra. Da sempre, la grandezza di Dune, opera letteraria o cinematografica, si è manifestata attraverso la metafora della fantascienza, sfruttandola al fine di ritrarre qualcosa di plausibile e non di impossibile, favorendo la possibilità di un’ esistenza desertificata e rarefatta ma mai priva dei sentimenti che costituiscono l’essenza dell’animo umano.
Nella prima parte dell’opera, il regista offre un’immagine di un mondo-universo, universale, al cui quale interno contiene intere società, ideologie, identità e culture che si incontrano e scontrano in continuazione, in un incessante gioco di prevaricazione che vede la spezia al centro, unico fine inequivocabile e giustificabile. Il primo capitolo di Dune è una mai stancante scoperta: Villeneuve si serve di un estetismo spropositato al fine di costruire scenografie grandiose, maestose ed epiche che mischiate alla straordinaria colonna sonora di Hans Zimmer, servitosi di elementi inusuali come la cornamusa, miscela la melodia al Folklore e ricrea un’atmosfera magica, capace di condensare al suo interno il gigantismo dell’epicità ma anche l’intimismo della malinconia e della riflessione. Di atmosfera, appunto, quella di cui il regista si serve per comporre perfetti quadri dal richiamo rinascimentale che portano alla luce del sole il misticismo della fede e della cultura araba, che ancora una volta nella filmografia del regista incontra l’Occidente, ed insieme, i due elementi cominciano ad ammirarsi e a scontrarsi, in una incessante danza per la vita, nella quale o sopravvivi o muori.
Il primo Dune introduce la figura dell’eletto, incarnata Paul Atreides, questa figura prende forma e diventa il fulcro centrale della narrazione. La sua vicenda è di vitale importanza soprattutto perchè legata al destino della madre, Lady Jessica, personaggio mistico e sfuggente che racchiude in sè tanti segreti quanto le dune di Arrakis. Il loro percorso è una costante crescita, entrambi apprendono qualcosa dall’altro, camminano, parlano e combattono fianco a fianco, in questo è fondamentale ricostruire il percorso madre-filglio/a, già presente nella Donna che canta. Infine, il grande fascino arrecato dalla spettacolare e provvidenziale vicenda che avvolge il guscio visivo di Dune è lo scontro sociale, la lotta di classe, le differenze imposte dal ceto, ricchi e poveri. Ognuno approda su Arrakis alla ricerca di qualcosa nella speranza di trovarlo.
Con il secondo capitolo, il regista Denis Villeneuve forza la mano su una differenza sostanziale. L’incipit è forte e chiaro, ci sono delle crepe ideologiche che dividono il Nord ed il Sud, Arrakis è un mondo politicamente spaccato a metà. Questa differenza si manifesta attraverso la quantità di valore che si desidera attribuire alla figura di Paul Atreides. Messia o falso profeta? Dune Parte Due analizza perfettamente la divisione sociale che la religione porta nei confronti del popolo: da una parte abbiamo la religione intesa in senso negativo, come incapacità di razionalità ed assuefazione messianica che conduce al fanatismo ed all’incapacità di essere lucidi; dall’altra, la religione intesa in senso positivo, cioè sottoforma di fede, qualcosa per cui credere e nel quale credere, che sia un popolo, l’amore o il legame con la vita stessa. In questo senso, il meglio sviluppato personaggio di Chani, è assolutamente funzionale all’interno del contesto e dell’economia della storia.
Ancora una volta, Villeneuve sviscera il rapporto tra due mondi: Occidente e Oriente. Paul Atreides è la figura che conserva in sé la guida politica occidentale che, una volta, incontrato lo spirito e l’animo dell’oriente, diventa enorme, anche a livello grafico, tanto da far scappare alla vista persino Bautista. Un’ulteriore disamina che Dune – Parte Due analizza ,riguarda il rapporto dell’essere umano nei confronti del potere. Paul, ad un certo punto, si farà corrompere da esso, divenendo una figura così focalizzante e guidatrice, anche totalitaria, incapace di riconoscere per davvero la via del bene e dell’umiltà ma solo del possesso, del materialismo e del dominio. Nel finale, nel quale è presente la promessa del paradiso, questa travisa in realtà il suo vero ruolo e ne sminuisce il valore, in quanto non più un luogo di pace e serenità e di profondo legame tra natura ed essere umano, ma diventa luogo di prevaricazione di dominio di alcuni popoli nei confronti di altri popoli, un’arena di follia e annebbiamento condizionato dal potere assoluto e non una valle verde e prosperosa dove possa germogliare la vita.
Ciò che Dune è e sarà, è la rappresentazione del nostro futuro immaginario. Affidare nelle mani del deserto il futuro della razza umana: qualora noi imparassimo a convivere insieme come una comunità, anche nei luoghi più respingenti, allora forse c’è una reale speranza di primavera e di rinascita. Alla fine, ciò che traspare maggiormente dal mondo di Dune è l’eros per il deserto, un profondo amore sensuale, talmente forte che se ci si tuffa dentro, si rischia di perdersi tra le sabbie delle sue dune e tra le meraviglie dei suoi misteri.
2. Polytechnique (2009)
Passano 9 anni dall’uscita di Maelstrom, il secondo lungometraggio di Denis Villenueve. Polytechnique è un film che racconta la strage avvenuta il 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montréal, quando il venticinquenne Marc Lépine uccise a colpi d’arma da fuoco tredici studentesse, più una dipendente dell’Università, per un totale di quattordici giovani donne, per poi togliersi la vita. Tutta l’opera è esplicitamente dedicata alla memoria delle vittime del massacro e in generale a tutti gli studenti e gli impiegati dell’École Polytechnique e alle famiglie delle vittime.
Polytechinique è un film ai limiti della perfezione assoluta. Il lungometraggio condensa in sé il dramma storico realmente accaduto con una attenzione ed una sensibilità fuori dal comune, mischiandolo ad una classe ed una messa in scena e personalità registica straordinarie. Villeneuve affronta la tragedia mettendoci la faccia nei confronti di chi veramente ha sofferto, fronteggia il dolore delle vittime e prova ad offrire un affresco il più fedele possibile senza mai cercare in alcun modo di esaltare o esasperare l’azione dentro la tragedia. In questo senso è incredibile ed estremamente stimabile come un cineasta si sia messo in discussione attraverso una forte volontà di esporsi soprattutto nel rappresentare il dolore non solo delle vittime uccise durante l’attentato ma in particolar modo delle vittime in vita, che accompagna passo passo in questo cammino espositivo di fatti senza mai scadere nella retorica.
Brillantemente la scelta del bianco e nero è funzionale e studiata nei minimi dettagli, al fine di non esaltare la violenza ed evidenziare il sangue il modo esplicito, trattandosi non di un dolore fisico ma specialmente sociale, quello che distrugge la società e crea dei mostri, talmente incapaci di redimersi persino da soli, da togliersi la vita, una volta commesso ciò che volevano. Il film analizza e mostra la vita quotidiana costellata da astri in erba: giovani che frequentavano quei corsi e riempivano quei corridoi. La macchina da presa si sofferma sui loro volti, ansimanti palpitazioni per esami e sussulti del cuore appena innamorato. Ognuno di loro ha un’identità diversa, uno spirito differente ed il film si interroga su come queste stelle diventeranno i nuovi ruoli della società del domani, in particolare sul valore della virilità del maschio all’interno di un contesto socio lavorativo in costante mutamento. La narrazione procede con un avanzare ed indietreggiare del tempo, necessario a fare breccia dentro la vita di queste persone e a ricostruirne le personalità nelle varie componenti dell’insieme, risultando affascinante e complesso senza mai essere sgradevolmente freddo e distaccato.
È presente uno sguardo realista all’interno, in quanto c’è anche il cinismo della salvezza nei confronti di chi non se lo sarebbe, ma soltanto all’apparenza, meritato. In poche parole, l’indifferenza si salva sempre e trova sempre dello spazio per riemergere anche negli spazi più chiusi ed angusti. Villeneuve dimostra, più di qualsiasi altra cosa, una grandissima sensibilità nei confronti delle vittime ed un enorme indulgenza nei confronti del dolore anche dopo che è entrato nelle nostre vite, quest’ultimo viene trattato attraverso un’esaltazione del quotidiano nelle sue piccole e minuscole forme di socializzazione al fine di divenire un inno alla semplicità e dell’attaccamento alla vita.
1. Blade Runner 2049 (2017)
Nel 2017, ancora prima dell’impresa di Dune, Villeneuve si rende protagonista di un’altra impresa, dall’eco se non superiore, certamente equiparabile. Si tratta di dirigere il sequel di un capolavoro immenso firmato Ridley Scott. La narrazione del secondo capitolo si discosta ampiamente dal lavoro dell’opera originale ma riesce a trarne la poetica per dare vita ad un film completamente contemporaneo dalla linfa vitale tutta nuova. L’agente K è un blade runner della polizia di Los Angeles, nell’anno 2049. Sono passati trent’anni da quando Deckart faceva il suo lavoro. I replicanti della Tyrell sono stati messi fuori legge, ma poi è arrivato Wallace e ha convinto il mondo con nuovi prototipi: perfetti, senza limiti di longevità e soprattutto obbedienti. K è sulle tracce di un vecchio Nexus quando scopre qualcosa che potrebbe cambiare tutte le conoscenze finora acquisite sui replicanti, e dunque cambiare il mondo. Per esserne certo, però, dovrà andare fino in fondo e fare i conti con il proprio passato.
Villeneuve nel voler riprendere la filosofia dell’originale Blade Runner, ne trae ispirazione per raccontare, nuovamente, la vita del singolo individuo all’interno della società, questa volta, contemporanea, l’alienazione sistematica che determina la fine dell’identità e l’individuo che vaga per la città in cerca della verità sulla propria esistenza. Ridley Scott negli anni 80′ dirigeva un’opera, a sua volta tratta da un testo letterario che voleva, indirettamente o volontariamente parlare dell’essere umano, delle sue colpe e della sua relazione col mondo che lo circondava. Il film si interrogava sul futuro e lo osservava con profondo rammarico, ma non con fare di rassegnazione o annichilimento, anzi era presente una speranza per la vita, per l’amore e per una rinascita del sentimento racchiuso ed incatenato all’interno di una sfera grigia, cupa e priva di vivacità intellettuale. L’immaginazione è la chiave per ogni essere umano di essere migliore, progredire, trovare una speranza ed un senso da affidare alla libertà, il più importante dei valori, e il più grande dei privilegi.
In quel periodo, il mondo alzava la testa ed immaginava le macchine volanti, ora invece, con Blade Runner 2049, si analizza l’individualismo imperante partorito dalla società contemporanea. Se un tempo si comunicava nonostante le vaste distanze, oggi quelle distanze si sono appiattite ed assottigliate per dare spazio ad una comunicazione rapida e veloce favorita dai social, i quali, però non svolgono un ruolo di reale avvicinamento che abbatte le differenze e distrugge le distanze sociali, anzi favorisce una chiusura, oltre che preoccupante ottusità, dell’individuo, il quale non crede più nella comunità ma solo in se stesso. Si è più egoisti appunto, meno interessati a favorire una crescita collettiva ma solamente personale, ed in 2049 vi è tutto questo. L’unico modo per risanare e rimediare a questo individualismo senza fine, è attraverso l’intimità, la comprensione dell’io, della propria sessualità e dei nostri punti di riferimento.
Spesso oggi, si guarda al passato non per ricordarci di cosa eravamo, ma per consolarci su ciò che siamo. la causa di ciò consiste nel dimenticarci del noi di oggi e del cosa potremmo diventare l’indomani. Questo rapporto di contrasti tra passato e futuro è anche il rapporto tra uomo e macchina, tra giusto e sbagliato, tra etico ed anti etico. Allora, la pioggia londinese di Scott che cadeva incessante sulle teste e sui cappotti dei meravigliosi ed indimenticabili protagonisti del primo Blade Runner, una pioggia che lavava le ferite e rivelava l’infinita lotta tra vita e morte dell’essere vivente, lascia spazio alla neve di Montreal, quella di Villeneuve: un manto soffice, il quale candendo non fa rumore e, una volta, sollevato il suo mantello bianco rivela la gelida verità sul significato dell’esistenza umana.
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