Per guardare bene le cose a volte è necessario fare un passo indietro così da poter osservare tutto nella sua interezza. Perciò oggi, in occasione del 39esimo compleanno di Damien Chazelle, abbiamo deciso di fare proprio questo; non una celebrazione, ma una riflessione sullo sguardo di uno dei registi più acclamati degli ultimi anni che, non a caso, ha fatto proprio dello sguardo stesso – tra occhi in primissimo piano, sbirciate voyeristiche e visioni sognanti del grande schermo, la cifra del suo cinema.
Perché è vero che la voce di Chazelle è piuttosto unica sul panorama contemporaneo ma è altrettanto vero definire il regista come il nuovo grande autore di Hollywood? Partiamo da questa provocazione per riflettere sul lavoro del regista a un anno dall’uscita italiana del suo ultimo film, Babylon.
Magnifica ossessione
“Vivrai in eterno, insieme agli angeli e ai fantasmi”. Un vero peccato che questa battuta, che Chazelle mette in bocca a uno dei suoi personaggi in Babylon, sia risultata essere meno d’impatto di quanto in realtà avrebbe potuto essere. Sì perché, se ci fermiamo a riflettere, questa manciata di parole racchiude il senso del cinema del regista: quella tensione verso il sogno, ma anche verso l’incubo.
In questo senso Chazelle, proprio per la sua capacità – oltre che volontà – di costruire un cinema così ambivalente, sembra aver sviluppato una sensibilità da autore della Hollywood classica: epoca di costruzioni di illusioni e ossessioni per eccellenza. Basta infatti ripercorrere la filmografia di Chazelle per rendersi conto di quanto l’amore per il cinema – inteso tanto come mezzo, quanto come forma d’arte – abbia contribuito a generare immagini nate per creare giochi di sguardi e che il pubblico può spogliare con gli occhi.
Pensiamo al sangue sulle bacchette in Whiplash, al viso di Emma Stone illuminato dai titoli di testa di Gioventù bruciata in La La Land o alle lacrime di Margot Robbie in Babylon. Damien Chazelle veste le sue immagini filmiche di un immaginario ben codificato e che lui fa suo con una parola chiave sempre ben in testa: ossessione. Il tutto con risultati non sempre costanti e, sebbene non ci faccia dubitare del fatto che lui sia un regista capace, ci fa anche pensare che questo non necessariamente vada di pari passo col fatto che possa anche essere la nuova voce del cinema contemporaneo.
Il linguaggio di Chazelle
Escludendo Guy e Madeline on a Park Bench, che pure in nuce presentava già quelle che sarebbero state le caratteristiche di Chazelle, i film successivi del regista presentano un linguaggio fatto di riferimenti al cinema del passato, in particolare a quella Hollywood Golden Era che il regista sembra tanto amare. Niente di sbagliato, anzi. Le opere dialogano e l’intertestualità è una qualcosa da tenere sempre presente anche quando si analizzano i film.
Eppure sembra che, soprattutto dopo il meraviglioso La La Land e un First Man rimasto nel cuore di pochi, la voglia di citare e aggrapparsi alle spalle dei giganti sia diventata un’urgenza da parte del regista che, così facendo, ha anche la possibilità di inserire le proprie storie in un contesto di riferimento – sia storico che culturale, ben preciso. Se però Whiplash e La La Land sono la dimostrazione delle potenzialità di un cineasta con un background come il suo, lo stesso non si può dire di First Man e Babylon che invece ne mettono in luce le mancanze.
Nonostante sia odiato dai jazzisti Whiplash è un ottimo film, addirittura considerato il miglior film della storia del Sundance come abbiamo appreso solo un paio di giorni fa, e può essere considerato il modello interpretativo di tutto il cinema di Chazelle stesso che, come abbiamo accennato, ci parla di ossessioni capaci di diventare incubi e sogni. Proprio questi ultimi mette al centro La La Land, omaggio dichiarato ai musical della Hollywood classica, a Vincente Minnelli e allo sguardo europeo di Jacques Demy, che è riuscito a incantare il pubblico di tutto il mondo proprio per la sua capacità di utilizzare tali elementi come punto di partenza per raccontare una storia i cui ingranaggi funzionano alla perfezione.
Il fatto che Andrew e suo padre guardino in tv Sua altezza si sposa, altro musical con Fred Astaire, e che Mia e Sebastian danzino come Gene Kelly e Leslie Caron in Un Americano a Parigi impreziosisce l’immagine: che si tratti degli sguardi tra i personaggi o del nostro di spettatori. Diversi sono i casi di First Man e Babylon in cui Chazelle ha utilizzato il suo linguaggio rispettivamente in sottrazione e in aggiunta. Risultato? Il primo è un film compassato che non riesce a cogliere appieno l’assenza di Neil Armstrong, il secondo un caos di tre ore che, sì certo, è una lettera d’amore al cinema ma che si perde comunque nella sua stessa bulimia. In entrambi ci sono gli incubi, ci sono i sogni eppure viene da dire che manca qualcosa.
Hollywood, Babilonia
Romantico, ambiguo, grottesco. L’occhio cinematografico (e cinefilo) di Chazelle è irresistibilmente attratto dalle contraddizioni. Del resto, come dargli torto? Con cinque film all’attivo il regista ha dimostrato che è possibile ritrovare la fascinazione del cinema del passato guardando comunque verso il futuro. Con un ma.
Questa ossessione primigenia infatti, quella da cui nascono tutte quelle dei personaggi dei suoi film, rappresenta per certi versi l’anticamera di un sogno irrealizzabile o che non riesce a concretizzarsi appieno. Ecco, Chazelle sembra essere diventato così ossessionato da certi stilemi da esserne forse diventato anche diventato prigioniero. Nulla di strano perché con cinque film all’attivo c’è ancora così tanto da esplorare e da creare; tanto con cui Chazelle potrà sorprendere o dividere il suo pubblico. Damien Chazelle è un regista che sta facendo il suo percorso e probabilmente per giudicare un po’ meglio il suo lavoro servirà vedere dove metterà le mani la prossima volta e quella dopo ancora.
Invece noi, abbiamo bisogno di polarizzarci tra “bello e brutto”, “robaccia e capolavoro” individuando nuovi enfant prodige a ogni generazione senza saper accettare che se hai amato il film di un regista non è detta che sarà lo stesso anche per quello successivo. In tempi in cui si parla tanto di libertà non dovremmo diventare miopi e affibbiare etichette. Ma qui non si parla più di cinema, si parla di altre ossessioni. Le nostre.
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