Ma voi sapete cos’è la Bleak House? È il titolo del nono romanzo di Charles Dickens, la cui trama ruota molto su omicidi, intrighi e inganni. Ma è anche il nome di una delle abitazioni di un noto regista messicano. Guillermo Del Toro: Oscar 2018 per La Forma dell’acqua, candidato nel 2007 per Il Labirinto del Fauno, stile inequivocabile e immensa capacità di saper mescolare i toni dark alle favole e l’intento poetico al mondo onirico o all’horror. Non sapete chi è? E allora ha proprio ragione Jack Black: “Cosa vi insegnano in questo posto?”
Fermatevi un momento, spegnete la luce, accendete una candela e magari mettete su i rumori di una tempesta: benvenuti nella casa degli orrori.
Le case della follia
Messico, anni ‘60. Fiabe e mostri. Un iniziale periodo di stabilità economica viene subito sostituito da repressioni violente, manifestazioni studentesche, scioperi di dottori e operai. Il presidente Diaz Ordaz, più che ascoltare, tende a reprimere e in tutto il paese si criticano le ingenti somme spese dal governo per finanziare le Olimpiadi del ‘68, a discapito delle condizioni dei cittadini e dei lavoratori della classe media. Durante i giochi, due pugni guantati di nero e uno sguardo negato interpreteranno un decennio di strappi e coscienze turbate ma rivoluzionarie. Sono gli anni del massacro di Tlatelolco e di Roberto Gavaldòn candidato agli Oscar. Fiabe e mostri. E in questo contesto che a Guadalajara, il 9 Ottobre del ’64, nasce Guillermo Del Toro che con le fiabe e i mostri costruirà la sua carriera. È proprio in Messico che il futuro premio Oscar si forma, coadiuvato dagli insegnamenti della nonna. A soli otto anni viene iscritto all’Istituto De Ciencias e scopre il mondo fantasy, con una certa predilezione per gli scritti horror e dark di H.P. Lovecraft ed Edgar Allan Poe. Gli piace molto l’estetica dei mostri, il contrappunto tra l’aspetto esteriore e quello interiore, e infatti i suoi primi contatti col cinema arrivano grazie al make-up e alla fondazione di Necropia, compagnia di trucco.
Inoltre, sponsorizza insieme ad altri artisti la creazione del Guadalajara Mexican Film Festival. Nel 1993 scrive e dirige il suo primo lungometraggio: Cronos, che si aggiudica il premio Mercedez-Benz a Cannes per la critica. Ma c’è tempo anche per le nuvole, perché nel ‘98 il padre viene rapito in Messico e liberato dopo 72 giorni solo dietro il pagamento di un riscatto. Dopo questo evento la famiglia Del Toro decide di emigrare negli Stati Uniti, in California. Ma tutte queste nozioni che non sfigurerebbero affatto nel curriculum del regista o in un’enciclopedia diventano quasi inutili quando trattiamo un uomo e un cineasta che ha saputo descrivere attraverso immagini e segni la sua mente e quella di ogni fan decente degli horror o del dark fantasy, aggiungendo a ogni trama un luogo inesplorato dove ogni angolo buio è descritto o in poesia o attraverso le fauci di un mostro che ha ben altro da nascondere dietro i denti aguzzi. A volte l’amore come nel Labirinto del fauno o la ghettizzazione dei diversi come in Hellboy o un rapporto di crescita reciproca targato La Bella e La Bestia come nel capolavoro La Forma dell’acqua.
Guillermo Del Toro sa descrivere il paranormale come nessuno, proprio perché sa renderlo normale. Per questo entriamo in sordina nella sua Bleak House. Sbirciamo tra le inferriate delle finestre, forse per vedere che faccia hanno i mostri o solo per confermare ciò che scriveva Shirley Jackson in Hill House: “Nessun essere vivente può vivere in condizioni di realtà assoluta”. Non fate alcun rumore, occhio alle scale che scricchiolano, apriamo la porta di Bleak House; state attenti agli spaventi. La porta cigola e un sottile banco di nebbia riempie l’esterno, un corvo gracchia in lontananza, sembra quasi di essere a Innsmouth; c’è il timore che una minima distrazione possa risvegliare gli abitatori del profondo. Meglio entrare.
L’atrio è dipinto di rosso, rubato all’abitazione del pittore John Sloane, sembra che le pareti trasudino sangue e cultura fantasy. La luce fioca emanata da poche lampade rischiara l’enorme volto del mostro di Frankenstein posto sul ballatoio e difeso in basso da una statua, quasi a grandezza naturale, di Sammael il mostro antagonista di Hellboy, portato sul grande schermo proprio dal regista nel 2004 e nel 2008 con The Golden Army. L’edificio ospita tredici biblioteche, ognuna con una tematica diversa. La prima che incrociamo sul nostro cammino ospita il meglio dell’horror e dell’occultismo: una lunga collezione di tascabili del diciassettesimo, diciottesimo e diciannovesimo secolo riempie i lati della vetrinetta, il centro è occupato da trattati originali sul vampirismo e la stregoneria, seguiti dalla quasi totalità dell’opera di Stephen King, di cui spiccano IT e The Stand, conosciuto in Italia come L’ombra dello Scorpione. Addentrandoci lungo un corridoio di quadri e statuette tra cui un piccolo Hellboy e Pepper di American Horror Story, raggiungiamo uno dei gioielli della Bleak: la “Rain Room”, chiamata così per la finestra fabbricata in modo che sembri sempre che fuori ci sia una tempesta; anche perché pareva brutto chiamarla: “la stanza dei sogni di qualsiasi scrittore horror/thriller vivente”.
Un altro dei gioielli della casa è la stanza dedicata a due grandi fonti di ispirazione di Del Toro: H.P. Lovecraft ed Edgar Allan Poe, in cui tra libri d’epoca e prime edizioni e palladi ispirati al Corvo dello scrittore di Baltimora, notiamo le statue degne di Madame Tussauds dei due autori. La Bleak House non smette mai di sorprendere e suscitare inquietudine e fascino nei visitatori, proprio come i film del suo proprietario. E se state leggendo questo articolo, forse in passato vi siete imbattuti in Amityville – film o storia vera – e saprete bene che le case mantengono lo spirito di chi le ha vissute.
Il sentiero delle lumache
Se la verità non vale niente, è giusto guardare ai fantasmi dei nostri sonni con la stessa serietà con cui consideriamo gli avvenimenti della vita quotidiana
Così si apre La città dorata, uno dei racconti più famosi di Lovecraft che sembra scritto per identificare la poetica di Guillermo Del Toro. Un cinema in espansione, che non si divide ma si moltiplica, appollaiato tra il Corvo di Poe e Pinocchio di Collodi. Studiare o semplicemente guardare i suoi film è come giocare al tiro alla fune: da una parte le fiabe, dall’altra i mostri. Solo che non vince mai nessuno. Tra loro la miscellanea di fatti storici come la guerra civile spagnola del ‘36 sotto la direzione di Francisco Franco, che farà da sfondo a un trittico incompiuto apertosi con La Spina del Diavolo e proseguito col gioiello candidato agli Oscar Il labirinto del fauno. Per il primo film c’erano già un paio di problemi a monte: il rapimento di papà Federico e la Miramax che continuava a censurargli scene, tipo l’omicidio brutale di alcuni bambini. Da allora niente più film con Weinstein e col senno di poi non è stata una brutta scelta. Per Il labirinto del fauno Del Toro scomoda i suoi ricordi d’infanzia, un sogno ricorrente partorito mentre viveva dalla nonna: un fauno che gli faceva visita tutte le notti e per lui era troppo vivido per non raccontarlo. Lo ha fatto nel suo stile, mescolando la tragedia franchista al racconto di Ofelia condotta dalle fate alle soglie dell’universo dei satiri.
Il realismo fantastico, prima descritto da John Carpenter, e poi ripreso nella poetica di Del Toro, capace di tratteggiare mondi infantili, quindi abitati da incubi che diventano reali nelle paranoie di tutti i giorni. Da ciò deriva la sua grande passione per gli orologi e quindi il tempo, gli insetti e i mostri, perché appartengono allo status di curiosità e ricerca di ogni bambino. Il gioco della lente con le formiche, i cartoni animati, il fascino di un ticchettio sommesso, i racconti dell’orrore scovati per caso in una soffitta come per Stephen King e i fumetti. Guillermo ha saputo raccontare i comics o gli albi del passato, senza mai tradire o banalizzare la lotta tra bene e male, ma assecondandola alle scelte dei propri protagonisti.
Hellboy 1 e 2, Blade II o Pacific Rim; accenni a un fantasy che va molto di moda in questi anni ma che in Del Toro sorvolano sul gotico o sul sci-fi e tentano un esperimento sociale che gli riuscirà molto bene alle soglie degli Academy Awards 2018: umanizzare l’irreale, perché solo se lo rendi possibile a occhio nudo, allora puoi provare la giusta gamma di emozioni necessaria a comprendere il film. Non sono solo robottoni o diavoli rossi quelli sullo schermo, ma emarginati, e lui che proviene dal Messico conosce bene la sensazione.
Non dimentica né da dove è venuto, da cui i tres amigos con Cuaron e Iñárritu, né da dove è partito: la nostalgia delle collezioni infantili, poi, messe in bella mostra alla Bleak House. Nelle sue opere, scritte o dirette, c’è Godzilla, Yattaman, King Kong, i delitti della Rue Morgue, i trascorsi tra le strisce Marvel. C’è anche Lovecraft ed era persino in procinto di realizzare una versione per il cinema de “Le montagne della follia”, poi scartata per i costi onerosi. Esaminiamo la notte degli Oscar 2018: per miglior film concorrevano Chiamami col tuo nome, Dunkirk, Tre manifest a Ebbing, Missouri e L’ora più buia. Storie penetranti e pungenti, figlie del reale e del quotidiano, manipolate per la statuetta. Eppure ha vinto la sua fiaba: La Forma dell’acqua, una versione ritoccata e romanticizzata de Il Mostro della Laguna nera di Jack Arnold, tanto da diventare il finale che lui aveva sempre sognato per quel film. Pensate che quando del Toro era in trattative con la Universal per girare un remake del film, chiese di poterlo fare dal punto di vista della creatura. Perché il cinema di Del Toro è questo: un contatto come Incontri ravvicinati del terzo tipo tra un mondo e l’altro… ma sempre dal punto di vista delle creature che abitano la sua Bleak House.
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