“Qual è il tuo film horror preferito?” chiedevano per primi Billy e Stu una volta identificata la vittima. E, a prescindere dalla risposta concreta, quella più corretta e inconsapevole era che il miglior film horror era proprio quello di cui stavano diventando protagonisti: la trasformazione della rabbia in un odio distruttivo verso il mondo mediante un gioco di sangue reale.

Sono passate poche settimane dal successo di Adolescence, la miniserie Netflix che ha conquistato il pubblico per la marcata capacità di portarci dentro un dramma totalizzante. Il dramma di un omicidio, di una società ingiusta, di un sistema sempre più liquido di cui fatichiamo ad afferrare le regole, ma anche di una comunità online vista come unico modo di comprensione e condivisione, di due genitori che non hanno mai realmente visto il proprio figlio e di un adolescente che distrugge – distruggendo sé stesso e il microcosmo che lo circonda. Proprio di questo ci vogliamo occupare: di quel senso d’odio più profondo che si trasforma in desiderio di annientamento verso l’altro.

Quel dolore muto

Adolescence
Adolescence – @ Netflix

Adolescence spalanca le porte a diverse analisi e riflessioni di natura psicosociale, ponendo in rilievo la discussione sul valore di Sé, il concetto di attaccamento e capacità relazionale, ramificandosi attorno al nucleo dell’incel (senza entrare nel dettaglio, coloro che si identificano nei “celibi involontari”, poiché poco attraenti secondo alcuni canoni di bellezza e potere richiesti dalla società e quindi dal genere femminile). Il filo rosso che lega la drammatica storia di Jamie è quello di un vuoto esistenziale affettivo, un abisso che possiamo ipotizzare radicato in traumi precoci circa un dolore mai riconosciuto, muto.

Un dolore che si concretizza in una incapacità di mentalizzare, quella competenza che consente di comprendere gli stati mentali, emotivi, affettivi e cognitivi (propri e altrui) che stanno alla base delle relazioni umane (per chi volesse approfondire, si consiglia la lettura di P. Fonagy). Una capacità che fonda le sue radici nella natura dei legami primari e nell’esperienza del bambino di sentirsi nella mente dell’Altro. Affinché un soggetto nasca, ha bisogno di vedersi rispecchiato nello sguardo della madre, altrimenti è come se, in qualche modo, non fosse mai esistito (in questo caso, per chi volesse approfondire, si consiglia la lettura di D. Winnicott).

Tutte queste ferite, queste lacerazioni della soggettività dell’individuo, creano pertanto spazi di non esistenza del bambino prima e della persona successivamente, in cui il soggetto non è mai stato rappresentato nella mente dell’Altro e non può sviluppare una serie di capacità relazionali vitali. Ferite del Sé, narcisistiche, che possono condurre anche alla distruzione più potente e orrorifica.

Rifiuto, vergogna e vuoto

...e ora parliamo di Kevin
Tilda Swinton in …e ora parliamo di Kevin – ©BBC Films, UK Film Council

Un ottimo esempio di queste lacerazioni che si trasformano in distruzione è …e ora parliamo di Kevin, pellicola del 2011 di Lynne Ramsay. Immerso nelle sfumature di rosso, emerge il quadro di un rapporto madre-figlio scandito dal rifiuto fin dalle prime battute. A tal proposito, è interessante notare come, dato che nelle righe precedenti abbiamo citato il tema incel, Elliot Rodger, autore del massacro di Isla Vista, scriveva di sentirsi rifiutato dall’umanità nell’incipit del suo manifesto.

Eva, madre di Kevin, non ha mai accettato pienamente il proprio figlio, considerato come elemento di dissoluzione della sua vita precedente e dei piaceri a essa connessi. Non sopporta il rumore del suo pianto, le sue sfide, non sopporta i bisogni che non può più appagare, non riesce ad amarlo incondizionatamente. Kevin è una pianta che non ha mai ricevuto il giusto nutrimento e non può nutrire, un bambino mai visto davvero. Il legame ambivalente che li unisce culmina con la scelta di annientare tutti tranne lei, la quale incarna il simbolo di un odio distruttivo sprigionato verso il mondo. Una madre che deve continuare a soffrire per il dolore causato direttamente (e indirettamente) mediante l’opera del figlio e che al contempo non può neanche essere distrutta.

Scavando un po’ nella letteratura psicoanalitica (più nello specifico, nel profilo della psicopatia) ritroviamo come alla base del sistema di attaccamento e affettivo si celino insicurezza e caos: le figure di accudimento (spesso madri depresse, deboli o masochiste) risultano incapaci di agevolare la verbalizzazione e la consapevolezza degli stati affettivi ed emotivi. Kevin sa che Eva non lo ha mai tollerato e una parte di sé lo ha sempre odiato. Quella madre che però, allo stesso tempo, è anche il suo mondo. Il giovane si sente ripudiato, nutre rabbia, rancore, è incapace di provare un senso morale o affettivo e lascia dominare un senso di morte e distruzione che diviene realtà mediante l’agito finale.

La psicopatia nel cinema

Dahmer
Dahmer – ©Netflix

Il cinema ha sempre cercato di fornire una sua rappresentazione di questo lato di sofferenza che può divenire distruzione. Quando ci avviciniamo a dinamiche simili è doveroso precisare che ci muoviamo su un continuum che va da livelli di funzionamento più elevato, con qualità che possono comportare anche un certo grado di successo in alcuni ambiti, a una minor integrazione, che può giungere persino alla psicosi. Per tale ragione, è ovviamente impossibile definire per assoluti il profilo del soggetto psicopatico. Un articolo scientifico pubblicato sul Journal of Forensic Sciences del 2014 ha analizzato la figura dello psicopatico nella rappresentazione cinematografica ponendo in risalto circa 400 titoli e mostrando come, nel corso del tempo, le caratteristiche siano cambiate.

Da un miscuglio di elementi più grotteschi e horror, il profilo si è via via pulito unendo punte di realtà più significative – grazie anche, si fa per dire, a casi come quelli di Jeffrey Dahmer o Ted Bundy. La loro presenza ha reso meno caricaturale la figura dello psicopatico, talvolta, invece, celebrata nella sue peculiarità più singolari – pensiamo ad Hannibal e il suo incredibile fiuto per i dettagli, quasi felino in tal senso e molto poco realistico. Forse è proprio questo l’elemento che crea maggiormente connessione e immedesimazione: il fatto che sia autentico, che dietro la finzione si possa percepire la rabbia, il gelo emotivo, la disperazione, l’odio. E questo, in qualche modo, riguarda una piccola parte di ognuno di noi.

Psicopatia e Psicosi

Norman Bates in una celebre scena di Psycho
Anthony Perkins è Norman Bates – @ Paramount Pictures

Bisogna però precisare che non tutto ciò che vediamo appartiene a questa forma di distruzione. Il cinema inganna e ci presenta soggetti che sembrano rientrare in questa categoria, seppur con differenze cliniche significative.

Pensiamo a nomi della portata di Travis Bickle (Taxi Driver) o Norman Bates (Psycho), in cui delirio e dissociazione sembrano invece gli elementi clinici più radicati nella loro personalità. In quest’ultimo, nonostante prevalga la distruzione del femminile, vediamo la messa in atto di una frattura abissale della mente, in cui entra in campo una fusionalità con il materno mai risolta, un’identificazione con la stessa e una divisione netta della vita di Norman, che si sovrappone perfettamente nella scena conclusiva. Siamo dinanzi a un panorama che, seppur intriso di violenza di ogni genere e tipologia, entra nel campo della psicosi e del trauma.

La questione potrebbe essere più semplice da intuire se analizzassimo le caratteristiche chiave della psicopatia, in cui, fra le tante, emergono difese come il controllo onnipotente per arginare prima di tutto la vergogna e che mirano ad avere un potere illimitato sugli altri. Da questo si diramano poi la manipolazione a scopo personale, la menzogna patologica, un senso grandioso di Sé, l’assenza di senso di colpa conseguente e la mancanza di empatia. Un profilo più calzante è quello, ad esempio, di Anton Chigurh di Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen.

Quando il dolore diventa distruzione

Misery non deve morire
Misery non deve morire – @ Nelson Entertainment, Castle Rock Entertainment

Abbiamo cercato di mettere in luce (attraverso una carrellata sicuramente poco esaustiva, ma auspichiamo sufficientemente ampia) come dietro alla distruzione si celi spesso un profondissimo dolore. Ci siamo serviti della storia di Jamie per chiederci quanto quel senso di solitudine e non esistenza porti alla generazione di una sofferenza silenziosa che produce una devastazione vulcanica. Partendo da questo presupposto, abbiamo aperto un pertugio verso il tema della psicopatia. La letteratura scientifica spiega quanto alla base di queste dinamiche ci siano correlati biologici e genetici, ma ridurre l’analisi soltanto a questo significherebbe continuare a non vedere il dolore che si cela anche dietro queste storie – perpetrando quella sofferenza che hanno sempre subito.

Jeffrey Dahmer, citato precedentemente e protagonista di una fortunata serie antologica Netflix, ha una storia personale devastante, intrisa di un profondissimo senso di solitudine. I traumi subiti, quel vuoto esistenziale, il profumo di morte che subodora nei rapporti umani creano le basi di una mente frammentata che non può conoscere la parte viva dell’esistenza. È ovvio che non tutte le infanzie infelici producano una passione per la distruzione simile – anche perché altrimenti dovremmo vivere in un mondo di serial killer. Tuttavia, è importante tenere a mente che dietro certe follie ciò ci sono ferite spesso irreparabili. Chi distrugge è già distrutto e, per non essere risucchiato dal dolore che si porta dentro, non trova altra possibilità se non chiuderlo in uno scrigno e buttare la chiave – nonostante questo continui a vivere interiormente.

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