Il 17 febbraio 1984 fu proiettato per la prima volta C’era una volta in America, e il risultato fu una fragorosa delusione. Se la produzione voleva un film poco sotto le 2 ore, Sergio Leone, dalla sua, aveva congegnato tutt’altro film. Una volta concluso il montaggio, il film durava complessivamente 269 minuti, ben oltre le quattro ore. Negli Stati Uniti, la versione voluta dalla Warner era di appena 94 minuti e montata in ordine cronologico.
Nulla a che vedere con la versione che oggi tutti possono ammirare: un racconto di vite e destini all’interno dello spazio e soprattutto del tempo, quel tempo che attraverso le analessi e le prolessi diveniva il tempo di un Paese intero. Quella versione vista, per la prima volta, dai critici americani era castrata e relegata ad essere una storia di gangster, come se ne vedevano tante, privata di quello spirito che avvolge tutte le sfaccettature dell’esistenza umana. A seguito di questi ritocchi, Sergio Leone respinse quella versione del film.
Al Festival di Cannes dello stesso anno, la durata di C’era una volta in America era di 229 minuti, molti di più di quelli pensati dalla Warner. Nonostante ciò, il rimaneggiamento di Leone non bastò a ricostruire tutto il disegno di quell’enorme mosaico che egli stesso aveva composto ed interi segmenti narrativi e personaggi annessi vennero cancellati. Solamente nel 2011, i figli di Sergio, Andrea e Raffaella, hanno delegato il restauro del film alla cineteca di Bologna, la quale aggiunse sequenze e dialoghi presente nel montaggio originario.
Una realizzazione travagliata
Sergio Leone cominciò a pensare alla realizzazione di C’era una volta in America tra il 1968 e il 1971, ovvero tra la fine di C’era una volta il West e l’inizio di Giù la Testa. Ispirato dal romanzo The Hoods, scritto da Harry Grey, il quale seguiva le vicende di un paio di mafiosi ebrei. Tuttavia, lo scrittore si era sempre dimostrato poco propositivo a scendere a compromessi con Leone, che comunque, iniziò a girare la pellicola nel giugno 1982.
Per la sceneggiatura, il regista chiamò diversi collaboratori, che lo avrebbero affiancato nella stesura definitiva di un copione travagliato. Leone optò per Robert De Niro nel il ruolo del protagonista Noodles, il quale con grande iniziativa accettò un progetto che da subito lo aveva appassionato. Inizialmente pensò a Joe Pesci per quel ruolo, ma Leone si impose perché ritenne che l’attore fosse più appropriato per un ruolo secondario.
Per i ruoli di Carol e di Max, il regista preferì volti meno noti come: Tuesday Weld e James Woods. Dieci mesi di riprese complessive per la realizzazione, dal 14 giugno 1982 al 22 aprile 1983. Girato tra New York, Miami, Montreal, Parigi, ma soprattutto tanta Italia, tra questi il lago di Como, Venezia, o meglio Lido e molta Cinecittà.
La fatalità dell’amicizia
In C’era una volta in America da sempre convivono due anime: la prima è quella delle immagini e la seconda quella della musica. Il sodalizio artistico e d’amicizia tra Sergio Leone ed Ennio Morricone ha radici solide sin dall’infanzia e anche in quest’opera il lavoro del compositore crea un macrocosmo di suoni al fine di scavare la profondità dei personaggi ed esaltarne le sfaccettature.
Come non mai, la musica in questo film si insinua tra debolezze dei suoi protagonisti e disseppellisce quello che nessuno vuole mai accettare; vuoti come la perdita dell’innocenza e la violenza insita nell’età adulta.
Il romanzo di formazione inizia con una morte: quella di Dominic, quella di un amico per sempre strappato della vita in tenerissima età, suggellata da quelle ultime parole sussurrate ad un amico, per paura di essere di meno: «Noodles, sono inciampato». La formazione è proprio quella di Noodles, colui che si accascia a terra nel tentativo di soccorrere il suo amico. Quello che ne segue sono la prigionia, lo scorrere degli anni, il rincontrarsi con gli amici di sempre.
Da piccoli delinquenti di quartiere, Noodles, Max, Patsy e Cockeye sono cresciuti, grandi come le loro ambizioni e le loro crudeltà, così come anche le loro differenze caratteriali ed ideologiche. Ad un certo punto del film Max, rivolgendosi a Noodles, dirà tali parole: «Noi siamo come il destino: chi va a star bene e chi va a prenderselo in culo». Il destino, quella sensazione di sospensione e di eterna illusione. Quel fremito che impedendoti di comprendere, non ti permette di agire e tanto meno di scegliere.
L’inclemente paura di perdere la propria innocenza, oppure, ancora peggio, di esserne privati prima del tempo; ferite talmente profonde che non si rimargineranno più. C’era una volta in America è la paura di crescere e di soffrire. Noodles è un uomo che perde tutto, non sa come agire e ritiene che la fuga sia l’unica soluzione affinché il destino cinico e crudele non bussi alla sua porta. La connotazione che Sergio Leone dona al personaggio di Noodles è quella di una figura spezzata, dannata a tal punto da non sapere più se identificarsi nella vita o nella morte.
Max è come Giuda, l’emblema del traditore, colui che ha venduto la propria dignità solo per ritagliarsi un posto d’onore. E Deborah divenuta l’amante del traditore, abbraccia la sua causa e gli dona un figlio. Le noti dolci del cantico dei cantici non sono sufficienti a sopperire le fatiche di una scelta, quella di una vita dannata al fine di cercare di espiare le proprie colpe attraverso la sopravvivenza.
Il retaggio del destino
Noodles torna a New York, dopo avere ricevuto una lettera, a distanza di 35 anni dalla presunta morte del migliore amico. Egli è consapevole che il destino ha nuovamente bussato, ma questa volta non sarà benevolo e lui dovrà pagarne dazio. L’arco narrativo di C’era una volta in America è un’analisi chirurgica ma sofferta del tempo di un luogo, si passa dal 1918, al 1933 fino al 1968, una ruota circolare.
Una concezione del tempo così com’era ritenuta dagli antichi greci: il tempo non è lineare o orizzontale, ma circolare, un cerchio che ripresenta le stesse colpe e le stesse sofferenze, la vita non cessa mai di essere. «Sono andato a letto presto». Questa la risposta di Noodles rivolta all’amico Fat Moe che non vedeva da tanto tempo, il quale è desideroso di sapere che cosa avesse fatto in tutto quel tempo.
In tal senso, Leone, attraverso questa frase riprende l’inizio della Ricerca del tempo perduto, il romanzo di Marcel Proust «Per molto tempo, mi sono coricato presto la sera», ma ne dona un’aurea più malinconica e disillusa, in quanto sul quel tempo perduto non c’è nulla da sperare e tanto meno da recuperare. Il non poter riavere gli anni perduti e di risanarli, crogiolarsi per un’età ormai finita, l’angoscia, la consapevolezza di misurare la propria esistenza con ciò che si è fatto e ciò che si sta facendo ora, questo a causa del peso del rimorso, dell’impotenza di agire su qualcosa di inesorabile.
Da ragazzo, Noodles si rinchiudeva in bagno per leggere Martin Eden di Jack London, la storia di un personaggio il quale destino avrà delle grandi affinità con il suo: i bassifondi, la furbizia, il conquistarsi tutto con le proprie forze, la ricchezza, lo sprofondare nel baratro, la fine.
“Nessuno t’amerà mai come t’ho amato io”
Ma Noodles ha una speranza, è quella che lo ha tradito e abbagliato per tutta la vita, quella luce negli occhi, gli stessi di sempre, che osservano una ballerina danzare, l’espiazione dai propri peccati, la sua vulnerabilità e la sua forza. «Nessuno t’amerà mai come t’ho amato io». Poco dopo averle ripetuto il Cantico dei cantici che da ragazzini tanto gli aveva uniti: «Il tuo ombelico è una coppa rotonda dove non manca mai il vino. Il tuo ventre un mucchio di grano circondato da gigli. Le tue mammelle sono grappoli d’uva. Il tuo respiro ha il profumo delicato delle mele”. C’erano momenti disperati che non ne potevo più e allora pensavo a te e mi dicevo: “Deborah esiste, è la fuori, esiste!” e con quello superavo tutto. Capisci ora cosa sei per me?».
Poco dopo, la violenza, l’abbandono e l’incomprensione definitiva. Il giorno dopo, Noodles osserverà Deborah partire per Hollywood, il suo finestrino è l’ultimo spiraglio di possibilità di vederla per un’ultima volta, ma il treno parte e Deborah se ne andrà via per sempre. Il loro è un amore destinato a non consumarsi mai, per quando arda forte e reciproco, un sentimento talmente profondo che non risparmia niente e nessuno, né chi violenta l’amore per cercare di possedere pure quello, né chi subisce.
Quella di Noodles è la storia di un antieroe, la cui tragicità sta nella colpevolezza di non aver mai saputo amare davvero. E chi non sa voler bene, come ritiene Fellini, è destinato a perdere. La condanna non è la morte, bensì, una vita costantemente appesantita dai passi alle nostre spalle, un incessante ricominciare ancora, in capo al mondo, e senza affetti. Noodles, è l’innamorato tradito dal suo stesso sentimento, quello che lo rende cieco davanti ad un rifiuto e incapace di comprendere che amore non vuol dire possedere e controllare ma far esprimere chi si ama.
Ritrovarsi, riconoscersi, vendicarsi
Durante la festa, Noodles deve fare i conti con il passato che ritorna, un diavolo con sembianze umane, una fisionomia conosciuta. Il senatore Bailey è Max, il quale invece di festeggiare la gioia di rivedere un pezzo della propria storia, si vergogna di se stesso e desidera morire. La vendetta di Noodles davanti alla dura verità consiste nel non ammettere di riconoscerlo. Ecco, C’era una volta in America è anche questo, cioè l’impossibilità, volontaria e non, di riconoscersi e di conseguenza ritornare quelli di un tempo.
E in una sfilata di ricordi nella sua memoria, il rifiuto di Noodles di non riconoscere più il suo vecchio amico, ai nostri occhi, è un distacco ancor più doloroso. «Vede, signor senatore, anch’io ho una mia storia, un po’ più semplice della sua. Molti anni fa avevo un amico, un caro amico. Lo denunciai per salvargli la vita e invece fu ucciso. Volle farsi uccidere. Era una grande amicizia. Andò male a lui e andò male anche a me». La scelta di tacere di Noodles è una chiamata di responsabilità su di sé.
È la ricerca di una salvezza ormai non più sperata perché, una volta accettato il proprio destino, nonostante la paura e il dolore, quell’innocenza è perduta per sempre. In C’era una volta in America ci sono tutte le ideologie e le tematiche dei film di Sergio Leone: l’amicizia, l’amore, la violenza, la magniloquenza dell’epica, il tradimento, il destino, la memoria, il senso di colpa, La vendetta, la fine dell’eroismo.
Eppure, ci si chiede cosa significhi quella smorfia che Noodles accenna forzatamente e che tramuta in un sorriso dietro ad un velo, appannato dal fumo e dalle allucinazioni. Davvero, come aveva dichiarato anche Sergio Leone, è tutto riconducibile o riducibile ad un sogno di Noodles? O magari, universalmente è l’immagine sul significato della memoria, della psiche umana?
Il testamento alla Storia
Che cosa vuole dirci quell’inquadratura finale con quel primo piano? Cos’è C’era una volta in America? È uno squillo di telefono che coattamente vuole destare gli animi e le coscienze ma soprattutto i sentimenti, un richiamo che avvolge il tempo, come il filo che compone quel telefono e si srotola tra l’innocenza del passato, le scelte del presente e il destino del futuro;
perché C’era una volta in America è la rappresentazione del sentimento e di quanto esso possa essere profondo, purché amore, odio, paura, dolore, gioia, euforia e sofferenza vengano vissute con la stessa intensità, non sprecando neanche una briciola di esistenza. Leone, un giorno, ironicamente disse : «Credevo fosse un’avventura. Invece era la vita». E la storia del film è una storia di vita separata da una sottile linea che differenzia la realtà dalla fantasia. E allora in quel sorriso finale, sarcastico, di ideologia Pirandelliana, nemmeno l’amore esiste, nemmeno la vita, nemmeno la memoria e forse neanche il film.
All’uscita del film, Morando Morandini articolerà così il suo pensiero sul film: «Il presente non esiste: è una sfilata di fantasmi nello spazio incantato della memoria. Alle sconnessioni temporali corrispondono le dilatazioni dello spazio: con sapienti incastri tra esterni autentici ed esterni ricostruiti in teatro, Leone accompagna lo spettatore in un viaggio attraverso l’America metropolitana e la storia del cinema su quell’America che è reale e favolosa, archeologica e rituale. È un film di morte, iniquità, violenza, piombo, sangue, paura, amicizia, tradimenti. In questa fiaba la violenza è legata alla golosità e alla morte. È l’America vista come un mondo di bambini»
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