Non avrà vinto il suo secondo Oscar come miglior attrice protagonista per l’acclamato Tár, eppure Cate Blanchett nel ruolo della protagonista assoluta del film scritto e diretto da Todd Field ha superato se stessa regalando alla storia della settima arte uno dei ritratti femminili più virtuosistici degli ultimi anni.
Nei panni di Lydia Tár, fittizia direttrice d’orchestra della filarmonica di Berlino perseguitata da ingombranti fantasmi del passato, l’attrice australiana dona tutto il suo camaleontico talento per portare in vita, dalle pagine dello script originale al grande schermo, il suo ideale testamento artistico.
Il risultato è una performance unica, che ha fatto ottenere all’attrice la Coppa Volpi a Venezia 79, il Golden Globe e il BAFTA.
Il virtuosismo di Lydia Tár
Il terzo lungometraggio dietro la macchina da presa di Todd Field ha all’apparenza tutti i crismi narrativi del film biografico della grande tradizione, applicati però alla storia controversa di Lydia Tár, personaggio nato dalla mente geniale dello stesso Field. Universalmente considerata una delle maggiori compositrici e direttrici d’orchestra al mondo, è anche la prima donna in assoluto a dirigere la filarmonica di Berlino. Come già precedentemente dichiarato dal regista e sceneggiatore statunitense, il lungometraggio è stato appositamente pensato con un solo nome in testa: Cate Blanchett.
Se la versatile attrice australiana non avesse accettato il ruolo nel nuovo, ambiziosissimo progetto di Todd Field, Tár non sarebbe mai decollato e mai avrebbe visto la luce delle sale cinematografiche. Per questo motivo è quasi un miracolo che l’interprete già vincitrice in passato di due premi Oscar (per The Aviator e Blue Jasmine) abbia deciso di accettare la sfida professionale e di dimostrare al mondo dello show business, per l’ennesima volta di essere probabilmente la performer cinematografica di lingua inglese più virtuosistica della sua generazione. Un aggettivo quest’ultimo, che ben si sposa con il complesso e stratificato personaggio che ha portato sul grande schermo. Forse il più difficile della sua carriera davanti la macchina da presa.
Un tour de force recitativo
Quello intrapreso da Cate Blanchett è a tutti gli effetti un tour de force di recitazione cinematografica; di certo, la regia di Todd Field facilita a tutto tondo le immense capacità della sua attrice principale, costruendo un fake biopic in cui la protagonista è presente praticamente in ogni singolo frame nel corso della pellicola. Tra long take, piani sequenza e lunghissimi monologhi, la fittizia Lydia Tár del regista americano prende improvvisamente vita grazie al volto della leggenda della recitazione australiana. In un ruolo femminile cucito addosso al nome della Blanchett, quest’ultima affronta la sfida svestendosi totalmente del suo appeal femminile, sia nell’aspetto fisico che nell’abbigliamento indossato dall’enigmatica direttrice d’orchestra.
Lydia Tár, leggenda della musica classica contemporanea e vera e propria rockstar nel panorama internazionale della filarmonica, è omosessuale, ha una compagna con la quale vive a Berlino assieme alla figlia adottiva e si veste con abiti solitamente destinati ad un gusto ed una prospettiva maschile: camicia bianca, giacca e lunghi pantaloni neri quando va a lavoro, poco se non totalmente assente il trucco femminile sul suo volto, un look che usa come moneta di scambio per legittimare il proprio status quo di fronte alla realtà sociale che la circonda. Svestendo dunque un aspetto e un modo di essere canonicamente accostati al mondo femminile, Cate Blanchett abbraccia le contraddizioni interne del suo personaggio, apertamente appartenente alla comunità LGBTQ+ eppure orgogliosamente patriarcale nell’immaginario visuale che sceglie di proiettare sulle sue pedine. Una “rinuncia” alla sua femminilità, quella dell’attrice, che il premio Oscar aveva già affrontato con risultati altrettanto straordinari in Io non sono qui di Todd Haynes, nei panni androgini di Jude/Bob Dylan. Curiosamente, un altro atipico biopic.
Come Robert De Niro in Toro Scatenato
Un tour de force recitativo che, con il procedere del racconto, si concretizza sempre di più in un’acrobazia attoriale che consuma il corpo e la mente della sua protagonista. Afflitta da un crescente stato di pericolo simboleggiato dal riaffiorare di scheletri nell’armadio del suo passato predatorio, Lydia incomincia pian piano a somatizzare la minaccia di una possibile caduta in disgrazia mediatica attraverso un accresciuto senso uditivo e attraverso il suo corpo. Non è solo questione di svestire la Blanchett della sua aura magnetica e delle fattezze femminili per restituire al pubblico in sala un ritratto androgino e gender-neutral, ma di darle in mano le chiavi per una performance che, tra cervello e gestualità corporea, è assolutamente “totale”.
Del resto, nel corso degli eventi di Tár, la nostra direttrice d’orchestra usa la sala concerti come ideale ring per sferzare i suoi colpi, per confermare la sua posizione di potere sia dentro che fuori il contesto professionale: come Robert De Niro in Toro Scatenato (e a un certo punto del film, Lydia Tár si presenta alle prove proprio con un naso rotto e suturato!) Cate usa un linguaggio prettamente gestuale per legittimare la sua visuale di predominanza. Astuti e precisissimi movimenti delle mani, delle dita, delle braccia, del corpo tutto, per condurre non solo la sua orchestra berlinese ma anche per stabilire il tempo della musica. Un tempo che, come afferma Lydia nell’emblematica intervista che apre il lungometraggio, nelle sue mani di conduttrice può fermarsi, rallentare, avanzare, indietreggiare: se non è questa una dimostrazione di potere e privilegio!
Il volto della cancel culture
Ma Tàr non è soltanto fittizia pellicola biografica di rise and fall del suo protagonista, ma anche una delle disamine contemporanee più acute ed originali sulle conseguenze della cancel culture odierna. È qui che il film, candidato a 6 premi Oscar e uscito a mani vuote dalla cerimonia, assume i toni del cinema dell’orrore più sopraffino.
Perché il fantasma della giovane Krista Taylor, ex-allieva di Lydia suicidatasi dopo una terribile esperienza di abuso psicologico perpetrato in passato dalla stessa direttrice d’orchestra, torna a perseguitare la nostra protagonista femminile con suggestioni da tipico horror psicologico. Ecco, quindi, che gli scheletri nell’armadio di Lydia Tár si concretizzano a volte con un agghiacciante ed enigmatico urlo lontano in un parco, oppure con un metronomo che durante la notte non smette di battere il tempo e sembra assumere vita propria, in incubi notturni che non le fanno chiudere occhio e che nascondo verità profonde e disturbanti.
Un elemento narrativo ulteriore questo che contribuisce a rendere il ritratto cinematografico creato a quattro mani da Todd Field e dalla candidata all’Oscar il volto definitivo della cancel culture attuale e delle sue temibili conseguenze; un ritratto al femminile che, al di là del mancato riconoscimento dell’Academy, incide il nome dell’attrice australiana nel pantheon delle più grandi interpreti della sua generazione.
Un privilegio, stavolta vero, che tutte le sue colleghe non possono che riconoscere con ammirazione e riverenza. Come si fa del resto con i più grandi di tutti.