Dopo il grande successo di Talk to Me, i fratelli Michael e Danny Philippou tornano al cinema con un nuovo, disturbante horror: Bring Her Back. Il film, però, non è solo il prodotto del recente successo, ma pone delle solide basi per la carriera dei due fratelli. Si iniziano infatti a delineare i temi della loro carriera: parliamo della condizione di una generazione giovanile che non trova risposta nell’assente mondo adulto.

Nati come youtuber, con il loro canale RackaRacka che conta più di 6 milioni di iscritti, il duo australiano ha iniziato facendo video sul web. Nei loro corti hanno sempre fatto sfoggio dei propri eccessi e di una certa demenzialità, almeno finché i giovani fratelli non sono stati affascinati dal Cinema che conta, approdando alle decostruzioni ironiche del genere horror come Zombie Fatalities.

La vera sorpresa è stata vedere il duo avvicinarsi a una delle case di produzione più famose del momento, la A24, che investendo sul loro talento si è assicurata la distribuzione dei loro film. Il duo sta riuscendo nell’intento di riportare al cinema un horror di puro contenuto, quello caratterizzato dall’aspetto psicologico e sociale dei suoi personaggi, riflettendo tutti i sentimenti di una generazione che ha qualcosa da dire – anzi, da gridare.

Attenzione!

Questo articolo contiene spoiler!

Relazioni e personaggi

Scena Bring Her Back
Una scena del film – ©Causeway Films

Bring Her Back mette prima di tutto in scena una storia di legami familiari. I nostri protagonisti, i due giovani Andy e Piper, sono messi di fronte a un mondo disperato in cui gli adulti sembrano mancare di presenza e responsabilità. Vi è infatti una chiara e pesante assenza nel mondo adulto con cui i giovani protagonisti dei Philippou devono fare i conti. Dopo il vuoto pneumatico lasciato dalla dipartita del padre, i due finiscono nelle cure di Laura, una straordinaria e terribile Sally Hawkins.

Laura vive con un terribile segreto: non è mai riuscita a elaborare il lutto di sua figlia. Secondo Jacques Derrida, la morte è un’esperienza fondamentale per la vita umana: l’esperienza della morte è infatti l’unico modo che abbiamo per riconoscere e rapportarci con il fenomeno della morte stessa. Non possiamo esperire direttamente questo processo, ma possiamo farlo attraverso il nostro prossimo. La nostra morte è vista nella fine dell’altro. Ecco allora che il lutto diventa “impossibile” e l’unica cosa che resta da fare è interiorizzare, divorare la perdita trasformandola in quella che Freud chiama “malinconia”: una vera e propria patologia che trasforma Laura da sana psicologa in un mostro di nostalgia.

Ecco allora che il personaggio di Laura ci appare umanissimo e il testo dei Philippou si trasforma in un horror umanista. Laura si abbandona al lutto, divorandolo e riplasmandolo. Interiorizza la morte, diventando essa stessa l’angelo sterminatore. Una condizione che porterà Laura a inscenare il lutto molteplici volte, anche attraverso Andy e Piper.

Umano, non umano

Bring Her Back
Uno dei momenti più inquietanti del film – ©Causeway Films

La crisi di Laura serve allora a mettere alla berlina una delle paure più antiche dell’umanità: la fine della nostra vita. Una paura primordiale che gli uomini hanno provato a superare mediante processi di immortalizzazione. Prendiamo in prestito la Sindrome della Mummia di André Bazin, critico e fondatore dei Cahiers du Cinéma. Secondo Bazin, l’umanità fin dai suoi albori ha cercato di combattere la paura della morte cristallizzando la propria immagine: prima attraverso le pitture rupestri, poi con la pittura e infine con il cinema.

Si tratta di catturare l’essenza, l’anima delle cose. Per Laura non vi è nulla di diverso: il suo intento è proprio quello di riprodurre la vita di sua figlia morta. Ecco allora che studia l’immagine, traccia i contorni della figlia sulla sagoma di Piper, plasma uno strumento (Oliver) e si prepara alla creazione. Nello stesso modo in cui un pittore ricostruisce il suo soggetto, Laura riplasma sua figlia in una dissacrante decostruzione della paura primordiale dell’umanità.

Ma il processo è violento, rischioso, e strappa da Laura quell’amore umano per la figlia che l’aveva spinta a tanto. La morte, che arriva spietata e inesorabile, ha allora una funzione di risveglio. Laura la esperisce direttamente sui personaggi ostacolo del suo cammino. Sarà infatti solo il terribile massacro da lei compiuto a permetterle di riconoscere l’impossibilità del lutto. Non vi è alcun modo, non vi è alcuna riproduzione o soluzione possibile che possa davvero “riportarla indietro” – accettando in questo modo di internalizzare la perdita e andare realmente avanti.

L’isola che non c’è

Bring Her Back
I due protagonisti – ©Causeway Films

La profondità di Laura, però, non è fine a se stessa. Il suo lutto riflette anche quello dei due giovani protagonisti. Andy interiorizza la morte del padre, divorandola e assorbendola a tutti gli effetti. Piper, invece, viene abbandonata all’omissione, privata di tutte le risposte necessarie per una giusta elaborazione della perdita. Andy assorbe la violenza prodotta dal padre, come una sorta di unico insegnamento da parte di un mondo adulto irresponsabile e assente per la nuova generazione. Ecco allora che la connotazione del lutto acquista una forza sociale.

Come in Talk to Me, questa è una generazione che sente il peso della solitudine: gli adulti mancano, i genitori falliscono. I giovani protagonisti di queste storie cercano, in una corsa forsennata tra la vita e la morte, un amore che non sembra più trovare riscontro nel reale. Non è un caso che questa dicotomia sia portata in scena proprio da due giovani registi che il gap generazionale lo conoscono bene. Parliamo di un gap tecnologico, emozionale, sociale; come testimoniano gli impacciati tentavi di Laura di penetrare nella mente di Andy.

La realtà è troppo angosciante, troppo disturbante. Lo smartphone diventa l’unico collegamento invisibile che tiene unita la famiglia di Andy e Piper. Laura, ancora legata a un mondo tecnologico del passato (come dimostrano i videotape e le cassette), non è più in grado di intuire i desideri e le angosce del mondo giovanile. Così come in Talk to Me, questi Bimbi Sperduti non hanno altra scelta che affrontare la morte per ritrovare quell’affetto e quell’attenzione perduti nella società contemporanea.

Lo Sapevi?

Nel 2023, i fratelli Philippou erano inizialmente coinvolti nella regia di un adattamento cinematografico di Street Fighter, ma hanno abbandonato il progetto per concentrarsi su questo film, ispirato al filone horror psycho-biddy.

Un mondo che finisce

Bring Her Back
Una delle composizioni del film – ©Causeway Films

I Philippou confezionano un horror attento, audace e pregno di forza psicologica. Il genere non è più solo una pedissequa riproposizione di cliché pensati per raggiungere il grande pubblico, sviluppato per spaventare inseguendo la nuova moda del momento. L’horror, seguendo gli insegnamenti di Fulci o Lang, può farsi matrice di un’esperienza piena. Ne è testimonianza lo stesso linguaggio che i due registi scelgono di utilizzare, molto distante dalla messa in scena standard del genere.

Una cifra stilistica audace, attenta e a lento scansionamento: cambi di fuoco, primi piani, slow motion. Il tutto sembra allontanarsi dalla tipica “spettacolarizzazione” dell’horror, lasciando tempo ai personaggi e all’intreccio di svilupparsi. Non ci sono momenti divertiti e poche sono le volte in cui la tensione viene allentata. In controtendenza con il genere, il jumpscare non è davvero presente. L’inquietudine nasce dallo sviluppo della situazione e dalle forti interpretazioni attoriali.

Ai Philippou non interessa allora la facile presa sul pubblico. Infatti in Bring Her Back scompare del tutto l’effetto “popcorn”. La tensione cresce al crescere del dramma narrativo. Tutto è studiato attentamente per inquietare tanto attraverso il gore quanto attraverso l’aspetto psicologico. Difficilmente lo spettatore si ritroverà invogliato a mangiare o consumare durante la visione, assorbendone completamente lo sguardo. Il tutto per parlare a una nuova generazione, attraverso un linguaggio che non sia solo vuoto. Una presenza nel cinema necessaria a dimostrare che qualcuno ha ancora qualcosa da dire.

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Cinefilo accanito, musicomane, videogiocatore e appassionato di letteratura e fumetti. Sono uno studente di cinema e audiovisivo, con una particolare attenzione alle produzioni del continente asiatico. Puoi trovarmi come cinerama46 sui social!