Non c’è che dire: Barbie è un miracolo.
Uscito nei cinema da una settimana, Barbie di Greta Gerwig non solo sta riportando in massa le persone, rigorosamente vestita di rosa, in sala ma ha anche generato un vero e proprio fenomeno pop (pensiamo solo al tormentone social del Barbenheimer)
Trovando il suo personale equilibrio tra autorialità e prodotto per il grande pubblico, il film rielabora infatti la sua IP di riferimento giocando con le innumerevoli contraddizioni del brand, andando a toccare temi attualissimi e universali ma anche il cuore degli spettatori.
Questo è il motivo per cui Barbie sta generando così tanti confronti e dibattiti, almeno tra coloro che sono disposti a non arroccarsi sulle proprie posizioni. Attraverso le sue lenti colorate di rosa, Barbie de-costruisce lo stereotipo tipicamente femminile della bambola parlando di femminismo e di quanto ancora siamo lontani dallo scardinare i disvalori tossici del patriarcato, con una storia che non vuole parlare soltanto a tutte le Barbie lì fuori, ma anche ai Ken.
Parliamoci chiaramente: non è vero che Barbie può essere tutto quello che vuole mentre Ken… è solo Ken, e difatti il film ce lo dimostra. Ma se alla fine la controparte maschile della storia capisce finalmente di essere Kenough (gioco di parole intraducibile tra Ken e Enough, abbastanza), siamo ancora lontani dalla quell’autodeterminazione che invece Barbie riesce a raggiungere. Ed è un po’ un peccato.
Ken e gli stereotipi maschili(sti)
Se negli anni Barbie è stata oggetto di dure critiche, le stesse su cui il film fa ironia, tanto da portare Mattel a diversi rebranding nel corso del tempo, lo stesso vale per Ken. Con il suo fisico atletico al limite dell’impossibile, il suo petto largo più del 27,5% rispetto a quello di un uomo medio, Ken, soprattutto a partire dagli anni Settanta, strizzava l’occhio a un altro prodotto di casa Mattel destinato a un pubblico unicamente maschile: Big Jim.
Muscoloso, atletico e con gli addominali scolpiti Big Jim, e poco dopo He Man, ha contribuito a perpetrare una mentalità che a tutti costi voleva l’uomo come possente, virile e sì, anche sprovvisto di emotività. Qualcosa che non ha toccato solo diverse generazioni di bambini, ma che chiaramente ha investito anche Ken come prodotto. Un giocattolo, quello dell’eterno fidanzato di Barbie, che, per lungo tempo, non si capiva a chi fosse realmente rivolto. Per i maschi Ken era “da femmine” e per le bambine era… un accessorio.
Sebbene le cose stiano cambiando e ora ci sia po’ più apertura in tal senso, solo negli ultimi anni pare che Ken abbia iniziato ad allontanarsi gradualmente da quello stigma di accessorio che l’ha sempre contraddistinto per diventare a tutti gli effetti un comprimario di Barbie. Ormai rappresentante di varie etnie e molto più inclusivo rispetto agli anni Sessanta e Settanta, Ken non è più solo “sciatore”, “attore” o “spiaggia” ma gradualmente sta prendendo il suo posto come infermiere, veterinario, giocatore di basket (guardare i cataloghi della Mattel per credere) in nome di quell’autodeterminazione di cui parla anche il film di Greta Gerwig. Certo, stiamo pur sempre parlando di un prodotto che deve vendere, ma non è questo il punto.
Il cuore della questione è che non può esistere femminismo in un mondo in cui ci sono esseri umani di serie A e di serie B, tanto a Barbieland quanto nel mondo reale. Motivo per cui Ken deve essere essere portatore di valori sani e attuali, tanto quanto Barbie. Il femminismo, infatti, non è solo una questione prettamente femminile, ma un modo di intendere la società e i rapporti tra le persone che la compongono, superando determinate visioni che hanno sempre visto gli esseri umani schiacciati dalla pressione sociale e incasellati in ruoli ben precisi. Qualcosa che, nel film, almeno in prima battuta, non avviene né a Barbieland né tantomeno nel mondo reale. Se infatti a Barbieland il patriarcato viene sconfitto costruendo una società in cui le donne ricoprono i ruoli di rilevanza e relegando tutti i Ken al ruolo di accessorio, nel mondo reale è l’esatto opposto.
L’idea di de-costruire un Ken in crisi d’identità, tanto quanto Barbie, ma schiacciato da pressioni sociali tipicamente maschili (perché sì, le pressioni sociali riguardano tutti) che però non riesce a rielaborare a causa di un’ostentata virilità e che prova a sentirsi più forte costruendo una distopia patriarcale in cui impera il mito del cavallo non è solo geniale, ma pone l’accento su una grande realtà: tutti si sentono fuori posto. Così se Barbie ha bisogno di capire a cosa serve, Ken, allo stesso modo, necessita di capire se per lui è possibile essere qualcos’altro oltre a un accessorio.
Il film lascia intendere che nel futuro ci siano prospettive tutte nuove per entrambi, eppure sarebbe stato bello vedere un finale più equilibrato. Più femminista. Perché sebbene il Ken marcatamente camp di Ryan Gosling funzioni su tutti i fronti, non sembra avere un reale spazio di crescita personale. Così come nessuna delle altre incarnazioni del personaggio.
Un’occasione mancata?
Da una parte è ovvio che Barbie, da protagonista e fulcro stesso dell’IP di riferimento, sia al centro della narrazione, così come è giusto che il tutto venga affrontato da un punto di vista differente in cui la bambola non è più la personificazione del desiderio maschile, ma un’idea che, in potenza, può essere quello che vuole. Perché le belle idee non muoiono mai e, sempre in potenza, sono davvero eterne.
Dall’altra però essendo il femminismo il fulcro stesso della storia e volendo il film rivolgersi a chiunque, proprio in nome di quello scambio e confronto che abbiamo citato in apertura, crediamo che avrebbe dovuto osare di più, optando per una chiosa che restituisse maggiore equilibrio a entrambi i personaggi. Magari dando a un Ken qualunque, come quello di Simu Liu, la possibilità di aprire per tutti gli altri simili una strada diversa e migliore, lontana dall’apologia dei cavalli, così da ricordare al pubblico, anche a quelli che sembrano non aver capito, che i tempi dei maschi contro femmine e viceversa sono finiti. Perché se vogliamo liberarci dagli stereotipi che ci hanno avviluppato per anni, gli stessi che volevano che ci fossero giocattoli da maschio e da femmina, dobbiamo farlo insieme.
Chissà… magari Greta Gerwig tra qualche anno tornerà a Barbieland per raccontarci come continua questa storia. O forse Ken nel frattempo ha trovato già la sua strada a nostra insaputa. Nel frattempo non possiamo che dire grazie perché questo film, che continua a correre velocissimo, resterà nel tempo. Di questo ne siamo certi. Perché, dopotutto, Ken e Barbie siamo noi: con le nostre insicurezze, i nostri errori e i nostri sogni.