Walter Murch, montatore monumentale di Coppola, ha detto un giorno che la televisione è uno schermo che si guarda (look at) e il cinema uno schermo in cui si guarda (look into). Avatar – La via dell’acqua è la dimostrazione al quadrato. Raramente abbiamo atteso con più impazienza un film, che si conferma un immenso spettacolo di cinema. Plongée sottomarina sul grande schermo, Avatar 2 autorizza lo spettatore a dimenticarsi e a passare a un’altra prodezza tecnologica che ha la famiglia al centro. Con i Fabelmans, i Pearson e i Sully, la storia familiare raggiunge un’altra dimensione. Una soap blu che tocca il sublime e un nuovo spazio da abitare.
This is us
L’ultimo piano di Avatar (2009), memorabile acme d’intensità, segnava il passaggio definitivo del soldato americano Jake Sully, veterano e paraplegico, nel corpo potente e blu di un Na’vi. Precipitato nel cuore del pianeta Pandora poteva finalmente vivere la sua storia d’amore con la bella amazzone Neytiri. Poi il silenzio per tredici anni. Tanto è durata la pace sul pianeta e il seguito di questa avventura straordinaria si rivela oggi più semplice di quanto avremmo potuto immaginare. Come nella vita reale, Jake e Neytiri hanno avuto dei figli e hanno scambiato la passione con la responsabilità genitoriale. Soprattutto adesso che il passato bussa alle porte e chiede la testa del rinnegato Jake. La storia può sembrare ripetitiva ma serve un proposito politico: il capitalismo è una macchina implacabile mai veramente vinta, che muta e torna più forte dopo le sue sconfitte. L’incubo, come sa bene il Sisifo-Jake, non finisce mai.
Così, Avatar 2 ritorna sul luogo del delitto e installa un’atmosfera due volte ‘familiare’. James Cameron spinge più in là i limiti tecnologici del cinema per filmare meglio una gioia originale: una mamma, un papà, dei figli. “La famiglia è una fortezza”, ripete Jake e Cameron gioca abilmente con la simbologia di questa formula dal momento che il suo eroe è diventato un padre condottiero e direttivo che gestisce i figli come soldati. La tentazione di vedere Avatar 2 come un film reazionario è forte ma è più complicato di così e allo stesso tempo più semplice, basta guardare il film per comprendere e credere, tutto è spiegato dall’azione. Grazie allo scarto di tempo tra l’Avatar del 2009 e La via dell’acqua, di cui si tiene veramente conto nella cronologia diegetica, il film si rivela un’odissea adolescenziale di emancipazione che ricorda quella di John Connor in Terminator 2.
E siccome siamo in un racconto di James Cameron, il vero eroe è il colonnello Quaritch, dato per morto tredici anni prima sotto le frecce di Neytiri e infilato di nuovo nella divisa del grand villain. Ma anche qui le cose non sono esattamente come sembrano, o come ci sono sembrate per tutto questo tempo, perché come dice James Cameron: “Nella science fiction nessuno è mai veramente morto”. Alcuni personaggi, allora, ritornano, altri nascono o sorprendentemente rinascono. Avatar 2 passa dall’ “io” al “noi” e adotta uno sguardo plurale adeguato al suo proposito panteista. Se Avatar non ha avuto discendenti, re James si è ritirato tredici anni in esilio e Marvel e DC hanno regnato in absentia appiattendo progressivamente il paesaggio (confrontate le scene subacquee di Aquamane Black Panther 2 per capire che nessuna promessa estetica è stata mantenuta), Jake e Neytiri ‘hanno avuto’ cinque figli, tre biologici (Neteyam, Lo’ak, Tuktirey) e due adottivi (Kiri e Spider).
Kiri è un’adolescente Na’vi e l’immacolata concezione della scienziata di Sigourney Weaver, Spider è un umano, cresciuto tra i Na’vi come il “selvaggio” di Rousseau o il “ragazzo” di Truffaut. Allevato da un popolo di giganti blu, cresce culturalmente Na’vi ma è l’erede di Quaritch, che assume un corpo Na’vi e conserva la sua memoria genetica per guidare le truppe americane su Pandora. Tra Spider e il colonnello si produrrà un’attrazione filiale conflittuale e irresistibile. Anche se il padre è solo un clone, anche se il figlio è un disertore della specie, anche se la loro relazione non ha niente di biologico, l’Edipo ritorna in modalità ossessione. Uno scenario antico che non vuole morire e si accorda bene con l’orizzonte primitivo che si è fissato il regista.
Spettro di Edipo e spettro di Amleto, Quaritch in un sublime slancio shakespeariano frantuma il cranio del suo scheletro per ridefinire meglio il suo avvenire. In modalità Terminator si libera dei limiti del gene, unità di base che non ha più senso in questa rivoluzione digitale. Il dilemma (“essere umano o essere Na’vi”) è risolto, Sully come la sua nemesi è tornato dal mondo dei morti e non transita più tra due entità, i rispettivi doppi sono diventati i loro corpi reali. Abbandonando completamente la mise en abyme della nozione di avatar, la duplicazione dei corpi era la grande questione teorica del primo film, accolta a ragione come l’avvento di un cinema nuovo, Cameron affranca il racconto dal movimento a pendolo di Avatar per farne un lungo sogno a occhi aperti spalancati.
Il digitale secondo l’autore riposa su una sorta di patto tra impulso vitalistico (la grazia del primitivo) e impulso mortifero, che non va inteso per forza in senso negativo, è sufficiente pensare ai prodigiosi morphing del Titanic, che dentro la stessa inquadratura rivitalizzano il relitto della nave per ritrovare l’effervescenza della sua prima partenza. Del resto, il tema di predilezione del regista idrofilo, insieme a l’ossessione per i fondi oceanici (The Abyss) e alla fascinazione per i bad guy (Terminator), è sempre stato il desiderio di superare i dualismi tradizionali (umano e non umano, cultura e natura, soggetto e oggetto, antico e moderno…) con un nuovo gioco di alleanze che sposi una tecno-scienza rispettosa con un primitivismo illuminato.
Più grande, più blu
Se il primo Avatar contava soprattutto sul montaggio per fare dialogare due mondi separati, quello degli uomini coi loro corpi in carne ed ossa e quello dei Na’vi interamente digitali, quel processo di articolazione non ha più ragione di esistere. In La via dell’acqua non ci sono praticamente più avatar. Tuttavia l’impressione di un passaggio da un mondo all’altro persiste in modo distinto tra le pieghe di un HFR (High Frame Rate) composito. Alternando la frequenza dei fotogrammi al secondo (24/48), i personaggi, all’interno di uno stesso spazio, operano un nuovo attraversamento dello specchio. L’impiego elastico dell’ ‘alta frequenza dei fotogrammi’ smussa la stranezza provocata dallo spettacolo di un film a 48 fps e dalla sua straordinaria nitidezza con una sensazione di impurità. Il film oscilla tra 24 e 48 a seconda della scena, riproducendo il tumulto della materia con una chiarezza impressionante nell’ora di un assalto al treno.
Ma per Cameron l’HFR ha un’altra evidente virtù, quella di riprodurre la vertigine della ‘prima volta’. La sequenza più eloquente è quella in cui i figli di Sully, rifugiati presso una comunità isolana, fanno il loro primo tuffo nella barriera corallina che circonda il villaggio. Cameron filma quel ‘bagno’ come una traversata in risonanza con l’immagine matrice, la proiezione di Jake-umano nel Jake-Na’vi. Qualcuno biasimerà l’importanza esagerata accordata alla famiglia ma Avatar 2 perverte brillantemente il suo soggetto e lo accorda al suo universo, in cui si prolunga nella maniera più bella e naturale. Jack e Neytiri fanno un passo indietro, alla loro prole il privilegio del ‘battesimo per immersione’, l’emozione di debuttare nella vita e di toccare l’anima delle balene con un dito. Perché La via dell’acqua è soprattutto un’opera di ‘trasmissione’ che tiene conto dei tredici anni trascorsi tra i due atti. Assistiamo in diretta a una muta della famiglia e del cinema, questi vecchi serpenti che cambiano regolarmente pelle.
Ma il passaggio dello spirito nel corpo di un avatar appartiene esplicitamente alla nozione di reincarnazione, soprattutto per due personaggi del film, i più densi: Kiri, l’adolescente Na’vi incarnata da Sigourney Weaver e Miles Quaritch, interpretato sempre da Stephen Lang, questa volta rinchiuso in un avatar. L’eredità e l’identità familiare improvvisamente non sono più così evidenti ma diventano uno specchio ideale di cui dobbiamo ancora decidere il significato e il riflesso. Di nuovo il gesto amletico di Quaritch e la nascita misteriosa di Kiri, fondamentalmente ibrida come i suoi fratelli (né veramente umani, né veramente Na’vi), fluida (capace di passare da un’ambiente all’altro) e iper-connessa (una quattordicenne collegata a Eywa e interpretata da una settantatreenne). Le crisi esistenziali dei protagonisti, soprattutto di Kiri, alla ricerca di un padre e di un contatto con la (grande) madre, sostengono come una filosofia quell’arsenale tecnico che permette agli attori di proiettare magicamente le loro performance su esseri digitali, indipendentemente dal loro fisico o dalla loro età.
In questo senso Avatar 2 va oltre il suo predecessore, aprendo un nuovo campo di possibilità. Non solo non abbiamo mai visto nulla di simile ma assistiamo alla perpetua riconfigurazione del cinema che sposta ancora una volta la sua frontiera. Nonostante il tono anticoloniale della storia, La via dell’acqua è un (meta)western, si tratta ancora una volta di “domare la frontiera” come il generale di Edie Falco, al comando dell’operazione di colonizzazione di Pandora. Il suo racconto, estremamente lineare e costruito intorno a una coppia e a un’unica spina dorsale, a cui si agganciano tutte le altre storie, secondo il principio di costruzione del cinema classico, è al di là del modello dei blockbuster Marvel. Cameron rifiuta le connessioni, i camei, i meta-ammiccamenti e lo storytelling pop degli anni 2010, che sopravvive sulla connivenza e il worldbuilding, universi che possono dispiegarsi su ogni supporto. Avatar 2 si svolge solo al cinema, al momento della sua proiezione, su cui conta per l’immersione.
Ma non è una semplice prodezza tecnica, perché l’immersione è anche quella della narrazione, risolutamente naïf, nel senso più nobile del termine, col suo mélange di ingenuità e candore che appaiono indissociabili dall’audacia di Cameron. Il regista si prende dei rischi, in particolare quando decide di filmare una relazione realmente orizzontale tra i Metkayina e i tulkun, sorta di balene considerate “sorelle e fratelli spirituali” della tribù. Rischio che ci riporta alla grande promessa implicita di una rivoluzione tecnologica avviata anni fa dal padre di Terminator: il digitale e i suoi strumenti (3D, HFR, performance capture, perfezionamento degli effetti speciali…) offrono la possibilità di immaginare un altro sguardo, slegato dalla sola prospettiva umana. “I see you”, Cameron filma ormai dall’occhio del tulkun, con cui uno dei figli di Jake dialoga attraverso il linguaggio dei segni, e poi come Giona dalla pancia della ‘balena’. Una balena gigante e rinnegata che piange.
Una delle qualità più evidenti del film risiede proprio nell’attenzione alla coscienza non umana. Poche volte l’intelligenza degli animali è stata mostrata con altrettanta bellezza al cinema. Come il cavallo di Spielberg (War Horse) o l’asino di Skolimowski (Eo), il tulkun di Cameron è senza illusioni sulla crudeltà umana. Quella disposizione quasi mistica dello sguardo, che solleva la questione della barbarie, coincide con l’approccio del regista. Mai esposto in un film, quando si avventura è l’apparizione di un T-1000, un iceberg che percuote il Titanic, un padre che va in guerra, un figlio che mostra la via… è tutto il cinema mainstream che subisce uno choc irreversibile.
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