Arrival, di Denis Villeneuve, con Jeremy Renner e Amy Adams, narra la storia di una popolazione aliena che sbarca sulla Terra, e dei tentativi compiuti da un team di scienziati, di comprendere le reali intenzioni dei visitatori. A capo del team, oltre al fisico Ian, abbiamo la linguista Louise, investita del compito di comprendere il linguaggio alieno di questi esseri, gli eptàpodi, che comunicano attraverso forme geometriche disegnate con l’inchiostro dei loro corpi, i cosiddetti logogrammi. Ma, da un punto di vista extradiegetico, qual è stato il processo che ha portato alla creazione di questo peculiare linguaggio, che poi Louise avrebbe dovuto decodificare all’interno del film? Il lavoro svolto da Patrice Vermette, direttore di produzione, è stato lungo, accurato, e ha richiesto la consulenza di specialisti da vari campi del sapere, tra cui linguisti (naturalmente!) e matematici.
L’idea iniziale era chiara nella sua concezione, ma di difficile realizzazione pratica; ricorda infatti Vermette: “Cercavamo un qualcosa di esteticamente piacevole all’occhio, ma che non fosse immediatamente riconducibile a un linguaggio; doveva trattarsi di qualcosa di alieno alla nostra civiltà, lontano dalla nostra tecnologia, lontano da tutto quello che la nostra mente conosce.”
La sceneggiatura richiedeva che il linguaggio alieno avesse forma circolare, ma tutti i tentativi iniziali di Vermette di creare qualcosa di nuovo, fallirono; varie consultazioni con linguisti e graphic designer portarono a dei risultati considerati troppo simili a espressioni linguistiche umane già esistenti, come i geroglifici, o codici matematici; espressioni con cui l’essere umano ha una familiarità troppo elevata.
Ormai a corto di idee, Vermette decide di consultarsi con la moglie, l’artista visiva Martine Bertrand: “Ne abbiamo parlato a cena, e si è offerta di aiutarmi a risolvere il problema; io ho accettato senza problemi”, ha dichiarato Vermette.
Di ritorno dal lavoro, il giorno successivo, Vermette trova sul tavolo di cucina 15 schizzi, e esclama: “Eureka!”; capisce subito di aver trovato la soluzione al problema: il giorno dopo, dopo aver mostrato i design al regista, Denis Villeneuve, Vermette può finalmente dare inizio alla vera e propria fase di sviluppo del linguaggio; durante la lavorazione, i due arriveranno a comporre un dizionario di quasi 100 parole, dando ai filamenti che fuoriescono dal cerchio, significati diversi a seconda del contesto: un singolo logogramma, a seconda di pur piccole variazioni di forma, può esprimere una singola parola (“Ciao”), oppure un concetto più elaborato (“Vengo in pace”); la differenza risiede nella complessità della forma utilizzata; ad esempio, un piccolo gancio al lato del circolo indica che si sta ponendo una domanda, mentre tratti d’inchiostro più o meno marcati possono rivelare l’atteggiamento emotivo dell’alieno comunicante: rilassato nel caso di un tratto leggero, oppure più preoccupato nel caso di un tratto più pesante.
Il passo successivo, una volta creato il linguaggio, è quello di analizzarlo, allo stesso modo in cui nel film sarebbe poi stato decodificato dai due protagonisti; a questo scopo, è stata richiesta la consulenza di Stephen e Christopher Wolfram, creatori del software di coding “Mathematica”, in grado di rilevare pattern ricorrenti (quelli che in linguistica sono chiamate ridondanze, e che possono aiutare a individuare informazioni ricorrenti utili alla traduzione; i Wolfram, quindi hanno sezionato ogni logogramma in 12 parti, poi inserite individualmente nel software, in modo da individuare eventuali ricorrenze.
Una volta esaminata la struttura interna del linguaggio, non resta che tradurlo in un idioma comprensibile agli umani; in questa fase del processo, fondamentale è stato l’aiuto della linguista Jessica Coon, che ha cercato di rendere chiaro e trasferibile su uno schermo il metodo scientifico proprio di un linguista, qualora si accinga a decifrare una lingua:” L’approccio che ho utilizzato è lo stesso che utilizzerei per qualsiasi lingua straniera; cercherei dei pattern; prima di arrivare a frasi complesse, bisogna comprendere le basi di una lingua“.
Per quanto riguarda l’entità del suo coinvolgimento, Coon racconta; “Mi hanno portata sul set, nella tenda dei militari, e mi hanno fatto scrivere sulla lavagna dove poi scrive Louise; volevano capire cosa bisogna scrivere quando si decifra una lingua, quali sono le mosse da fare, come si annotano questi logogrammi, eccetera; alla fine mi hanno mandato delle stampe e mi hanno detto: “Lei è una linguista, veda come si può fare“.
Il processo artistico di creazione del linguaggio, secondo Coon, non è però mai stato completato: “I creatori sono i primi ad ammettere che la loro non è una vera e propria lingua, come poteva essere il Klingon (la lingua parlata dall’omonima razza aliena nell’universo di Star Trek, ndr) ma più semplicemente la rappresentazione artistica dell’ideale complessità di una lingua; è arte, insomma.”