In Amata di Elisa Amoruso si sente la presenza di un qualcosa che non viene annunciato mai a voce alta. Il film ha più l’effetto di una carezza che brucia, come quelle parole che non si riescono a dire ma restano lì, nel respiro. È un film che chiede di fermarsi e di guardare, anche controvoglia.

Forse è questa la sua prima verità: Amata attraversa una storia, invece di raccontarla. E in questo attraversamento si percepisce la mano di una regista che ha scelto la discrezione come forma di potenza. Elisa Amoruso, con la sua scrittura visiva che tende sempre all’intimità, aveva un obiettivo chiaro: dare voce alle donne, far emergere il rumore sommerso delle loro vite interiori. Non tutto, in Amata, funziona alla perfezione. Ma ciò che colpisce è l’ostinazione della pellicola nel non voler compiacere.

Dove finisce la parola, comincia la pelle

Tecla Insolia in una scena del film – @ 01Distribution

La sceneggiatura di Amata non aveva l’intento di costruire. Non c’è bisogno di incasellare gli eventi o di portare lo spettatore per mano. Amoruso lascia spazio all’imprevisto emotivo, con i personaggi che sembrano muoversi non per necessità narrativa, quanto più per istinto. È una scelta che può spiazzare: in certi momenti il ritmo pare spezzarsi, come se la regista si perdesse dentro il racconto. Ma quella perdita è parte del disegno.

Ci sono scene che restano impresse non per quello che accade, ma per come accade. Un gesto semplice (che può essere una carezza esitante, uno sguardo trattenuto troppo a lungo) diventa più eloquente di qualunque dialogo. È cinema dell’attesa, quello in cui le emozioni maturano nel tempo di un respiro.

Le performance sono il cuore pulsante dell’opera: gli attori, guidati con una mano ferma ma invisibile, sembrano abitare i personaggi. Tecla Insolia (il cui volto Amoruso accarezza con pudore) restituisce una femminilità che non è mai superficie, ma corpo pensante. Nei suoi silenzi c’è la materia stessa del film: il tentativo di sopravvivere a se stessi, accettando di essere amati nonostante la paura. C’è però un limite nella scrittura: a volte l’intensità emotiva scivola nell’autocompiacimento. Alcune scene sembrano dilatarsi oltre misura, come se la regista avesse timore di lasciare andare i personaggi. È un eccesso d’amore, paradossalmente coerente col titolo, ma che rischia di togliere ritmo al racconto.

Una regia che osserva invece di spiegare 

L’abbraccio tra Luca (Stefano Accorsi) e Maddalena (Miriam Leone) in una scena del film – @01Distribution

Amoruso filma con una delicatezza che esprime resistenza. La macchina da presa si ferma spesso sui dettagli, e da lì costruisce il mondo interiore dei protagonisti.

C’è poi un modo molto preciso in cui la regista usa la distanza: non troppo vicino da soffocare, non troppo lontano da perdersi. Lo spettatore diventa quindi testimone, ed è in questo equilibrio che Amata trova il suo tono.

Il montaggio segue la stessa logica: fluido, ma mai invisibile. Si percepisce la scelta di restare su uno sguardo, di tagliare per emozione. La musica arriva in punta di piedi: una presenza discreta che entra solo quando il silenzio diventa insostenibile. E quando arriva, serve ad amplificare quel che già si percepisce. C’è una coerenza emotiva in questa scelta, una forma di fiducia nello spettatore: Amoruso non teme il vuoto sonoro.

Dettagli che restano, e quelli che si perdono

Stefano Accorsi in una scena del film – @01Distribution

Tutto in Amata parla di realtà, filtrata attraverso l’intimità. Non c’è artificio, ma un’attenzione particolare ai toni, alle sfumature. Gli interni sembrano respirare insieme ai protagonisti. La luce entra dalle finestre come un personaggio ulteriore, portando dentro il mondo esterno, che la storia spesso lascia fuori campo.

Ci sono momenti in cui la fotografia sembra catturare il tempo stesso, come se la luce avesse memoria. Ma ci sono anche scelte più discutibili: l’uso eccessivo di tinte calde, che rischia di uniformare l’atmosfera, e qualche passaggio in cui la composizione visiva si fa troppo attenta a sé.

Eppure, sono proprio i dettagli a restare. Amoruso ha la capacità di costruire senso attraverso le piccole cose, di trasformare l’oggetto in metafora. Non sempre la coerenza narrativa accompagna quella visiva. In certi passaggi, la storia sembra allentare la presa, quasi distratta. Ma è una distrazione che, in qualche modo, diventa parte del suo fascino.

L’amore, la vulnerabilità e l’occhio che sa vedere

Una scena del film – @01Distribution

Parlare di Amata significa parlare del modo in cui una donna guarda le donne. Filmarle ha lo scopo di ascoltarle. Il tema che attraversa la pellicola (l’amore come esperienza di vulnerabilità, come ferita e rinascita) è infatti trattato con uno sguardo che scava.

Ciò che rende questo film diverso è proprio la prospettiva femminile. Non si tratta di un racconto che riguarda le donne, anche se non condotto da una donna. La pellicola possiede una grammatica diversa: un modo di vedere il dolore e la tenerezza senza gerarchie. Dove il cinema maschile spesso costruisce il corpo femminile come luogo del desiderio o del sacrificio, Amoruso lo restituisce come spazio di esistenza. Come solo una donna avrebbe potuto fare.

L’amore che racconta Amoruso è pieno di ombre, di fallimenti, di momenti in cui la tenerezza diventa dolore. È un amore che sporca, ma anche l’unico possibile, perché nasce dal riconoscimento dell’altro come essere fragile. Ci sono scene che incarnano questa visione. Ed è lì che il punto di vista femminile rivela la sua forza.

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Classe 2005, nata tra i templi di Paestum ma con origini statunitensi. Cinefila compulsiva, sono redattrice di ScreenWorld.it dal gennaio 2025 e Content creator per la pagina Ilmiocinemaofficial (22.5k su Instagram). Scrivo perché non so farne a meno. Ironia inclusa.