Si è conclusa da poco la cerimonia dei premi Oscar 2022. Una cerimonia per certi versi atipica, che ha subito alcune modifiche rispetto alla formula canonica (la più scellerata: la proclamazione di alcune categorie tecniche relegate a un semplice tweet e poi trasmesse in differita con video riassuntivi) e che ha confermato alcuni cambiamenti di gusto da parte dei membri votanti nei confronti dei film nominati.
Per sapere com’è andata a finire vi rimandiamo al nostro articolo su tutti i vincitori e i premi di quest’edizione.
Qui, però, vogliamo provare a riassumere ciò che ha definito questa 94esima edizione del premio.
Ecco le 5 cose che abbiamo capito dagli Oscar 2022
Viva la diversità!
Dieci film nominati nella categoria principale che raccolgono (quasi) tutto lo spettro possibile dei film “da Oscar”. Quest’edizione 2022 dei Premi Oscar ha dimostrato di rappresentare un cinema vivo e vario, che trova nelle proprie differenze e nelle diverse possibilità di raccontare una storia il suo punto di forza. Forse la difficoltà di scegliere in maniera decisa un solo titolo vincente per il Miglior film è indicativa. Cosa preferire tra un canonico biopic come King Richard – Una famiglia vincente e un thriller d’altro tempo come La fiera delle illusioni – Nightmare Alley? Siamo sicuri che l’epica maestosa di Dune sia da preferire al racconto intimo e caloroso de I segni del cuore? E qual è il modo migliore per rappresentare un mondo in declino con personaggi in conflitto tra loro? Attraverso il cupo immaginario western de Il potere del cane o i colori e le danze di West Side Story?
E ancora, come confrontare uno sguardo sorridente del passato come in Belfast con quello cinico e amaro del futuro come in Don’t Look Up? O il piacere di due ragazzi pronti ad affrontare la vita correndo per strada (Licorice Pizza) con quello di affrontare la morte percorrendone un’altra alla guida (Drive My Car)?
Storie e sensibilità variegate, stili e generi diversi. Con un pizzico di poesia si potrebbe dire che il solo vincitore di questi premi Oscar 2022 sia il cinema, nella sua totalità. Che messaggio perfetto per un’annata che aveva sulle spalle il difficile compito di mostrare la ripartenza di un’industria dopo un periodo altalenante e zoppicante come quello dell’anno passato. In questi dieci film nominati per il maggior riconoscimento, ognuno di noi può ritrovare sia il cinema consolidato e rassicurante, che quello a lungo atteso, capace di sorprendere. Poco importa se le storie sono adattamenti di opere letterarie, totalmente originali o remake di altri film. In questa diversità si ritrova il presente in cui siamo inseriti, un mondo che esalta le differenze (di approcci alla materia, di discorsi, di voci) e festeggia attraverso di esse. Guardare fuori dalla finestra non è mai stato così bello. Il grande schermo non è mai stato così luminoso.
Uomini fragili
Se gli Oscar sono una fotografia, quest’anno nell’album dei ricordi metteremo la mascolinità fragile. Ovvero uno dei temi più ricorrenti di questa edizione. Perché sbirciando tra i film candidati, vengono a galla tanti uomini fallibili, repressi e insicuri. Sembra quasi la risposta involontaria alla scorsa edizione, dominata dal cosiddetto “girl power”, abitata da coraggiose signore nomadi, registe alla ribalta e donne promettenti. È come se, in modo del tutto inconscio, il potere femminile avesse spinto gli uomini a mettere in mostra le loro debolezze. L’uomo ha finalmente la libertà di mettersi a nudo senza per forza mostrare i muscoli. Ce ne siamo accorti con Dune, in cui l’eroe in formazione al centro del racconto epico è un ragazzo acerbo, gracile, con una strada ancora da trovare. E non è un caso che il suo film sia monco come lui, con una storia inespressa e ancora tutta da scrivere.
All’ombra del Vesuvio abbiamo abbracciato i dolori del giovane Fabio, che in È stata la mano di Dio è diventato uomo, e lo ha fatto tra dubbi, lacrime e dilemmi ancora dentro la valigia. Bagaglio non molto diverso da quello dentro il cofano di Drive My Car, dove il protagonista prende atto del tradimento di sua moglie per rimettersi in discussione come persona attraverso un viaggio esistenziale profondo e riflessivo. Un viaggio più pieno di domande che di risposte. Di risposte, invece, sembra averne tante il ruvido cowboy de Il Potere del cane, ma è in realtà è un grande bluff. Solo una messa in scena. Perché il personaggio di Cumberbatch si mostra granitico solo per nascondere i suoi segreti e le sue pene. Puro illusionismo anche il protagonista de La fiera delle illusioni. Uomo venuto dal nulla (e che nulla rimane tutto il tempo) artefice di una grande truffa: si spaccia per elegante borghese quando in realtà non è altro che un rozzo assassino.
Eccolo il panorama maschile degli Oscar 2022: pieno di uomini fatti a pezzi. E non è un caso che il padre vincente di King Richard, anche trionfatore della serata (con l’Oscar a Will Smith), ci sembri un personaggio vecchio di vent’anni.
Guardare indietro
Sarà che la realtà è scadente. Sarà che da un paio d’anni non ce le stiamo passando tanto bene e il mondo di ieri ci appare un posto sicuro in cui tornare per sentirci a casa. Tutte cose che, casualmente o meno, hanno spinto tanti autori a tuffarsi nel passato. Tantissimi registi hanno guardato indietro, rovistando nel proprio album dei ricordi o nella loro soffitta da cinefili. Lo hanno fatto Kenneth Branagh, Paolo Sorrentino e Paul Thomas Anderson, rievocando la loro fanciullezza e giovinezza, sospesi tra nostalgia e contagiosa gioia di vivere. Lo ha fatto Steven Spielberg, rispolverando un vecchio cimelio come West Side Story, accuratamente tirato a lucido e portato a nuova vita come solo i grandi maestri sanno fare. Ci è riuscito anche Guillermo del Toro, che nel presente sta sempre scomodo, con un noir oscuro che sembra davvero uscito dagli anni Quaranta per grammatica e stile di regia. Stesso sguardo rivolto all’indietro anche per Jane Campion, che ha fatto sguazzare il suo cowboy in un western ormai morente e superato, permettendo al suo protagonista di proteggersi dietro un genere ancorato a vecchi archetipi duri a morire.
Le famiglie vincenti
Se dovessimo raggruppare in un unico tema i dieci film candidati al Miglior Film non avremmo dubbi nell’affermare che la stagione appena trascorsa si sia concentrata sul concetto di famiglia. Un tema molto contemporaneo, che è stato lungamente rappresentato anche nell’eccellenza della serialità televisiva (la terza stagione di Succession, la quarta di The Crown) e in diversi blockbuster di successo (Spider-Man: No Way Home, The Batman, No Time to Die…), e che dialoga con i giovani spettatori di oggi. Forse, inconsapevolmente, stiamo assistendo a una messa in discussione della definizione stessa di famiglia, differenziandola tra quella biologica e quella emotiva. Sintomo di un conflitto tra generazioni, in un rapporto tumultuoso tra genitori e figli, tra un mondo che oramai non troviamo assurdo chiamare “antico” e un mondo nuovo.
Sotto questa lente d’ingrandimento, Dune diventa la storia di un figlio che si ritrova a dover confrontarsi con la pesante eredità del padre e del lignaggio della sua famiglia; King Richard sottolinea il sogno del padre che si ripercuote sulle figlie. Al contrario, I segni del cuore è la storia di un’emancipazione, quella di una figlia nei confronti di un padre, volta a rompere una piramide di potere (e lo farà non attraverso la lotta fisica -come lo scontro tra le due famiglie di Jets e Sharks in West Side Story-, ma attraverso il dialogo). E Il potere del cane, invece, è la storia di un amore di un figlio che sente il dovere di proteggere la propria madre.
La fiera delle illusioni parla delle dissoluzione del concetto di famiglia, con un protagonista divorato dal proprio ego predominante, mentre Licorice Pizza mostra la creazione di quel concetto, attraverso un’amicizia che nasconde un amore fortissimo. Così come è forte il legame tra il nipote Buddy e la nonna interpretata da Judi Dench in Belfast. Lì lo vediamo già consolidato, al contrario dei protagonisti di Drive my car che, orfani della loro famiglia, si renderanno conto di averne bisogno di una nuova.
Infine, basterebbe considerare il finale di Don’t Look Up, con una famiglia seduta al tavolo, intenta a mangiare. Unita, fino alla fine del mondo.
Il segno col cuore
Non sorprende, di conseguenza, la vittoria di un film come I segni del cuore. Certo, il film di Sian Heder si dimostra quasi un’eccezione alle regole che hanno da sempre consolidato il premio come l’assenza di candidature su categorie importanti come la regia, la fotografia o il montaggio. Non sorprende perché I segni del cuore compie, attraverso uno stile semplice e asciutto, chiaro e limpido, un piccolo miracolo. Rinunciando forse a una maggiore qualità artistica “alta” che spesso si ritiene necessaria per essere meritevoli del premio, questo piccolo film, all’apparenza sin troppo televisivo, riesce a parlare agli spettatori.
Lo fa attraverso un racconto che tocca le corde emotive giuste, che sotto la superficie sa raccontare un’intera generazione, attuale, contemporanea, alla ricerca della propria identità, con una luce ottimista e positiva che permea l’intera atmosfera. D’altronde l’abbiamo sempre saputo: come luogo dedito ai sogni e alla fantasia, il cinema riesce a parlare del presente facendoci allontanare da tutto ciò che appare più oscuro. Anche a costo di rinunciare alla bellezza delle immagini o alla maestosità della messa in scena.
Il cinema di cuore, votato con il cuore.
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