28 anni dopo segna il ritorno di Danny Boyle a una delle sue creature più apprezzabili, 28 giorni dopo. Dopo il discreto sequel di Fresnadillo, che aveva lasciato scontento il pubblico, Boyle e Garland tornano a raccontare una storia di orrore tra mostri e umanità. In fondo, nel panorama attuale, sarebbe stato alquanto strano non riprendere un cult horror come quello di Boyle, ma la produzione non si è limitata a questo.
È indubbio che il mondo della produzione cinematografica attuale sia profondamente cambiato rispetto ai 2000. Oggi come oggi, non ci si può semplicemente accontentare di un cult come 28 giorni dopo. Il primo film ebbe infatti un successo clamoroso, guadagnando 100 volte tanto quanto era costato. All’epoca questo poteva bastare per dare adito a un sequel apocrifo, senza prestare troppa attenzione alla continuità.
Oggi le cose sono ben diverse: se c’è un qualche tipo di concentrazione mediatica intorno a una determinata storia/prodotto, questa deve essere sfruttata. Poco importa se vi è una vera e propria necessità di raccontare. Ovviamente, ci sono storie che conservano quel potenziale latente. Per essere sfruttate al meglio, però, occorre una visione autoriale. Boyle e Garland, dopo varie vicissitudini produttive, decidono di non sfruttare il cast originale e ripartire daccapo. Il che comporta tutta una serie di riflessioni.
Questa pellicola contiene scene forti che potrebbero non essere
adatte a un pubblico sensibile.
Una questione di linguaggio

La particolarità che aveva caratterizzato il primo cult era proprio la scelta dell’immagine. Boyle decise infatti di girare il film con una Canon XL1 (affiancata da alcune Arriflex). Una videocamera di nuova generazione che, all’epoca, avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo cinematografico. Queste scelte conferirono al film un aspetto acido, granuloso e fortemente contrastato. A questo si aggiungevano i tecnicismi di Boyle: inquadrature fuori asse, movimenti frenetici, primissimi piani.
L’audacia nelle scelte stilistiche viene ripresa anche in 28 anni dopo. Il regista britannico decide infatti di utilizzare un iPhone 15 Pro Max per buona parte delle riprese. Non si pensi, tuttavia, che l’iPhone da solo possa ricreare ciò che si è visto al cinema. La camera è stata infatti equipaggiata con ottiche mini estremamente potenti, capaci di conferire all’immagine un look cinematografico e di integrarla perfettamente con il resto delle riprese. Ovviamente, utilizzare un iPhone significa avvicinarsi sempre di più all’universo audiovisivo che imperversa su internet e sui social.
Il look non è certo quello di 28 giorni dopo, ma è ugualmente deciso: l’alto contrasto, l’intensa saturazione e la gestione delle alte luci ci riportano in un mondo post-apocalittico fatto di sfide e paure. Ma non si tratta più soltanto di una questione estetica. Boyle, un po’ alla maniera di Soderbergh in Unsane, strizza l’occhio al nuovo pubblico e ai nuovi media. Il film è un ulteriore prova di integrazione dei nuovi linguaggi con quello cinematografico. In primis, quello del videogame.
Futuri videoludici

Non è certo la prima volta che vediamo un film assumere forme e linguaggi propri del videogioco. Gus Van Sant l’aveva già fatto con Elephant, nel 2003. Ma Boyle, qui, ci restituisce una visione fortemente integrata dei due media. Il momento in cui Jamie o Spike colpiscono uno degli infetti scatena una vera e propria “Fatality”: il tempo si ferma e la macchina da presa scorre da sinistra a destra con una velocità inusuale. Anche in questo caso, è possibile che siano stati utilizzati una serie di iPhone sincronizzati.
L’effetto ha ovviamente un forte impatto sullo spettatore, ma anche un’elevata riconoscibilità. È facile associare questa manovra a una sorta di “reward” tipica dei videogiochi. Se ottieni una kill in determinate condizioni, potrai godere di un effetto spettacolarizzante. L’intento di Boyle era chiaramente questo. Ma l’aspetto videoludico è ancora più espanso: lo ritroviamo sia nelle situazioni in cui i personaggi entrano in gioco, sia all’interno della struttura stessa della sceneggiatura. Il film sembra costruito a “livelli”, con zone e personaggi da sbloccare.
Quando Jamie porta fuori Spike per la prima missione, assistiamo a un vero e proprio tutorial videoludico. Una spiegazione di questo tipo, così didascalica, un tempo avrebbe fatto storcere il naso a più di qualcuno. Oggi, invece, siamo abituati a una situazione in cui il Mentore ci illustra le regole del mondo di gioco e le azioni necessarie per vincerlo. Con tanto di infetti suddivisi per livello di difficoltà: il basso (entry enemy), il veloce (lo standard) e l’Alpha (il Boss).
Il mondo dell’audiovisivo

Il mondo dell’intrattenimento visivo è profondamente cambiato. La soglia dell’attenzione continua a scendere e, di conseguenza, il modo in cui usufruiamo delle storie è diventato completamente diverso. Che sia dilatata all’interno di un videogioco da 40 ore o condensata in un reel da un minuto, la narrazione oggi richiede molteplici stimolazioni visive. Anche 28 giorni dopo presentava un ritmo alto e immagini particolarmente impattanti per uno spettatore pigro, ma, all’epoca, si trattava di una precisa cifra stilistica.
È chiaro che 28 anni dopo, invece, conosca perfettamente queste nuove regole. Il ritmo è estremamente serrato e le scelte registiche mantengono costantemente lo sguardo dello spettatore incollato allo schermo. Il film è montato freneticamente, unendo più punti macchina girati in contemporanea senza lasciare respiro nelle sequenze più efferate. Ma non solo: Boyle inizia a mescolare una serie di immagini provenienti dai sogni, dai ricordi o addirittura dalle scene immediatamente successive.
Il montaggio frenetico imprime nello spettatore un’immagine dopo l’altra senza soluzione di continuità. In un attimo siamo catapultati nel passato, poi nel futuro. In un tira e molla di immagini dove la prima rimbalza su quella successiva. Ed è chiaro che questo montaggio alternato, incrociando più elementi narrativi, serva a mantenere alta l’attenzione. Ma questa tensione, sapientemente costruita, fa uso di strumenti diversi. Nel nuovo mondo visuale, l’immagine in sé non basta più.
Nel film 28 settimane dopo il virus raggiunge Parigi. Garland ha deciso di ignorare questo aspetto, confinando il virus esclusivamente nel Regno Unito.
La narrazione 28 anni dopo

Questa costante anticipazione dell’immediato futuro riflette una nuova necessità spettatoriale, positiva o negativa che sia. Lo spettatore ha bisogno di una cascata di immagini altamente impattanti, capaci di cogliere la sua attenzione. Se non si rispettano queste nuove regole, l’attenzione si perde. Perdere l’attenzione significa perdere la storia. Non riuscire a dialogare con essa.
Il regista apre quindi le porte alle nuove soluzioni, producendo però al tempo stesso uno specchio della modernità. Il ritmo si alza sempre di più e le opere singole non sono sufficienti. Ora abbiamo bisogno di universi pieni di immagini. Con 28 anni dopo, Danny Boyle realizza un monito per l’industria dell’intrattenimento e per il nuovo pubblico. Un pubblico che dovrà fare i conti con la rivoluzione in atto.