Presentato fuori concorso a Venezia 81, Il Tempo che ci vuole di Francesca Comencini avrebbe potuto tranquillamente passare in sordina senza destare particolari clamori. Invece, dopo un’ottima accoglienza e con l’uscita nelle sale prevista per il 26 settembre, la speranza è che questa pellicola riesca a incuriosire abbastanza da riempire più sale possibili. Di film italiani così carichi di passione non se ne vedono molti al giorno d’oggi, tantomeno in un contesto fatto di sfarzo e apparenze come il Festival del Cinema. La regista romana ha atteso a lungo prima di onorare un padre iconico come Luigi, ma ne è valsa la pena: oggi, con un’ampia esperienza alle spalle e una carriera degna del nome che porta, Francesca sceglie di guardarsi dentro (e indietro) per omaggiare un collega imponente, ma soprattutto per ringraziare un padre che le ha cambiato la vita.
Il Tempo che ci vuole è un film di attese e ricordi, di quelli che nel dolore ci sguazzano dentro fino a trovare qualcosa di valore: in un’Italia di fantasie e piombo, la Comencini racconta la piccola, grande storia di un padre e una figlia che crescono tra realtà e sogno, stringendo un legame che dal cinema trae forza e diventa unico. Non c’è altro su cui indugiare: Luigi (Fabrizio Gifuni) e la figlia (Romana Maggiora Vergano) sono le colonne portanti di un film che non si perde in chiacchiere e si “limita” a esplorare due punti di vista divergenti. Due generazioni che soffrono l’incomunicabilità, due anime sorrette da un amore incrollabile che tentano disperatamente di capirsi, un cinema che si fa contesto, motore e persino insospettabile protagonista di una fiaba irripetibile.
Genere: Drammatico
Durata: 110 minuti
Uscita: 26 Settembre 2024 (Cinema)
Cast: Fabrizio Gifuni, Romana Maggiora Vergano, Anna Mangiocavallo
Tra sogno e realtà
Luigi danza in un oceano di momenti chiave, concentrandosi quasi esclusivamente su una figlia che si fa grande sotto i suoi occhi sempre più stanchi. A volte traspare una sofferenza interiore che è difficile qualificare, ma la Comencini è quanto mai rigida nell’accontentarsi di raccontare il qui e l’ora per due atti abbondanti di film. Tutto ciò che accade fuori dagli sguardi tra padre e figlia si fa sempre più marginale: è il legame a dover parlare, passando dall’estasi alla crisi per poi rinascere attraverso la catarsi. La sofferenza viene declinata attraverso linguaggi differenti, tra il sottile e l’estremo, avvicinando la realtà attraverso un cinema che diventa punto d’incontro e comunione.
Come nei migliori slanci neo-realisti, verità e grande schermo si intrecciano costantemente: “il cinema mostra quello che trova” e la regista si impegna al massimo per mantenere la rotta. C’è la storia, c’è l’Italia e c’è un popolo ne Il Tempo che ci vuole, ma c’è soprattutto un confronto generazionale fra due protagonisti immersi in un oceano di significati, avvinghiati l’uno all’altra anche quando rischiano di perdersi. Tutto nasce dalle idee della Comencini e si evolve grazie a due interpretazioni magistrali: Gifuni incarna alla perfezione lo spirito e il disincanto, il carisma e la dignità, mentre Romana Maggiora Vergano domina la scena con uno sguardo tenace e dolce al tempo stesso, sempre più pronta a lasciare il segno nel cinema che conta.
Sembrerebbe un gioco di parole, ma Il Tempo che ci vuole si prende davvero il suo tempo per cogliere certe sensibilità, lasciando percepire il peso di un percorso che possa trasformare il dolore in bellezza. A tratti il film fatica a delineare i contorni di un rapporto tanto complicato, specie nella sua parte centrale, ma oltre l’ostacolo si apre una parabola travolgente, d’amore purissimo e passione cinefila.
Nelle fauci della balena
Per un film che avrebbe potuto fallire in ogni modo possibile, il messaggio che emerge oltre la superficie si fa quanto mai azzeccato, sfiorando portate universali. “Fallire ancora, fallire meglio” non è soltanto una citazione a Beckett, bensì la presa di consapevolezza di una figlia che è riuscita a portare il cuore oltre l’ostacolo. Il Tempo che ci vuole non fa centro soltanto perché restituisce l’idea di un cinema salvifico in un paese che sembra remare contro l’arte, ma perché si spinge con coraggio oltre il citazionismo per raccontare una storia davvero libera – o, per meglio dire, matura.
Qui la maestria della Comencini è la prova lampante che gli insegnamenti dell’uomo e dell’artista sono divenuti la base di un’eredità meravigliosa, anche se per molti ingombrante. Una dicotomia difficile da portare sullo schermo, ma che qui trova la giusta espressione ponendo il cinema al centro: quest’opera è figlia di un’immaginazione superiore, fiamma di bisogni e desideri che nascono riflessioni e si fanno ambizione. Francesca Comencini ha le idee chiare e per questo osa in continuazione, cercando di accogliere una miriade di argomenti nell’infinito abbraccio a suo padre. Una storia che, per struttura e temi trattati, si presta a un’infinità di digressioni e possibili avventure, ma che sceglie di restare dove conta davvero.
Dietro quel filo sottile che unisce due anime legate dal sangue e dalla celluloide c’è un mondo di battaglie che il film esplora soltanto in superficie. A imporsi è soprattutto un’idea di cinema che accarezza cultura popolare e coscienza condivisa per affacciarsi al mondo attraverso l’amore. Non poteva che essere questo il modo migliore per raccontare la parabola di un uomo di cinema, ma soprattutto l’orgogliosa fiaba di un padre, che nelle fauci di una balena sognava il cinema e segnava il futuro.
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Il Tempo che ci vuole è uno splendido passo a due che parte dall'amore e si espande al cinema, rendendolo protagonista di elogi e riflessioni. Un'opera che accoglie l'emotività e la passione con grazia e potenza, portando in scena lo sguardo maturo di una grande regista e l'energia di due interpreti sensazionali. Una perla su sentimenti che soltanto il cinema può rappresentare, pronta a toccare il cuore di molti.