Attorno a Megalopolis non c’era solo attesa o speranza. C’era la necessità, condivisa da tutto il mondo cinefilo, che fosse un grande film. Che diventasse un simbolo. Il lavoro di un unico uomo contro un intero sistema che si frappone in maniera coatta tra lui e la realizzazione del proprio sogno. Quell’ultimo grande film venuto da un’altra epoca ma in grado di imporsi, grazie al talento visionario del proprio regista, contro i tiranni del cinema commerciale e mainstream. Ed è normale che tutti noi, almeno per un secondo, ci abbiamo davvero sperato. Una storia troppo bella per non aggrapparcisi con la determinazione e l’illogicità che solo chi è guidato dalla pura passione conosce. E soprattutto ne avevamo bisogno, più che da cinefili, da esseri umani imprigionati in quest’epoca.
Era quindi prevedibile che un qualsiasi risultato diverso dalla perfezione avrebbe scatenato un grande dibattito. Ma mai ci saremmo aspettati di trovarci davanti a un film come Megalopolis e all’esplosione di una bomba dialettica tale da scuotere le fondamenta del panorama cinefilo. Cerchiamo quindi di fare un poco di chiarezza, andando ad esplorare le ragioni dietro a questo fenomeno e a cercare di capire cosa può insegnarci del nostro mondo.
Perché Megalopolis non è piaciuto
Partiamo dalla base: Megalopolis, preso come puro oggetto cinematografico, è un film irricevibile. Basta fermarsi, senza neanche analizzare il lato narrativo (che pur aprirebbe strade molto controverse), alla grammatica utilizzata e alla sfera tecnica. Il film di Coppola non ha niente al posto giusto. La continuità logica non è contemplata e non per una scelta stilistica ma perché figlia di un montaggio balbuziente e sconclusionato. I dialoghi sono di una sciatteria tale da creare sgomento, non sono aiutati da un cast che sembra privo non solo di qualsiasi indicazione ma pure della motivazione necessaria per tenere in piedi la traballante impalcatura (in questo caso eccezion fatta per Shia LaBeouf, l’unico che pare aver capito il contesto). E così il tono di Megalopolis diventa un pendolo in continua oscillazione tra il pathos della tragedia shakesperiana – molte delle quali citate direttamente – e il ridicolo, in questo caso spesso abbracciato involontariamente.
O ancora si potrebbe continuare soffermandosi su delle scenografie in cui non è contemplata l’omogeneità: dalla ricerca del sovraccarico di dettagli a zone spoglie, fino a momenti in cui tutto pare di cartone. Oppure a un comparto di effetti visivi che non sarebbe stato accettabile alla fine del secolo scorso ma che in un anno in cui abbiamo visto realizzare con 100 Milioni in meno Godzilla: Minus One diventa incomprensibile. E a proposito di budget, Megalopolis più che sotto-prodotto sembra un progetto in cui è mancata la capacità di allocare le risorse nel modo corretto. Teniamo a mente quest’ultima frase per il finale di questo articolo.
Perché Megalopolis è piaciuto
Dato per assodato quanto detto nel paragrafo precedente, il voto attribuibile a Megalopolis dovrebbe essere un 1/10. Esiste però un’alternativa, l’unica percorribile. Andare dalla parte opposta dello spettro e attribuire il voto massimo: 10/10. Ed effettivamente, tolto qualche sporadico e francamente poco utile caso in cui si è cercato di posizionarsi in una posizione mediana, è quello che è successo. Ma perché molti critici hanno deciso di andare oltre le oggettive problematiche? I motivi sono molteplici. Anzitutto perché Megalopolis è un’opera ricca di fascino. Una malia decadente che permea ogni immagine e che impedisce, come tutte le più spettacolari cadute della storia, di distogliere lo sguardo. Il film di Coppola accenna alcuni temi portanti – su tutti quello della manipolazione temporale che ovviamente trova una metanarrativa collocazione all’interno di un’arte che si muove a 24 fotogrammi per secondo – prima di lasciare, per i vari motivi elencati, tutto lo spazio possibile alle interpretazioni. Un lebensraum aumentato dal contesto produttivo di cui parlavamo in apertura.
In questo modo il mestiere del critico trova delle fondamenta perfette in cui provare a svilupparsi, andando a tessere una propria interpretazione di Megalopolis. Così l’architetto di Adam Driver, chiamato a immaginare il futuro partendo dal passato, da alterego del regista diventa la controparte di ognuno di noi. Tutto più che lecito, sia chiaro, è la parte più profondamente artistica del nostro lavoro. E visto che lo abbiamo citato, inutile tener nascosto l’ultimo dei motivi: il nome. Non si fa di certo spergiuro nell’affermare che Megalopolis, se diretto da un regista con un altro curriculum, verrebbe considerato una versione sotto steroidi di The Room. Ma d’altra parte il nome, la storia, il contesto produttivo, le possibilità interpretative, sono tutti argomenti validi.
Cosa ci insegna il caso Megalopolis?
Molte cose, alcune sul sistema cinema, altre su di noi e il nostro strano mondo prismatico. Partiamo dal più indolore. Megalopolis è una chiara dimostrazione di come in progetti di queste dimensioni avere un sistema produttivo classico, pur con tutte le sue storture, è fondamentale. Dare valutazioni e suggerimenti al regista; comprendere in che modo allocare il budget; trovare e gestire i team esterni di artisti “esterni” (come quello dei VFX); cercare di mantenere un ambiente sano, funzionale ed equilibrato sul set. Avere una produzione e dei produttori forti serve, prima di tutto, a creare tutto questo sistema di strutture e sovrastrutture. È una questione di competenze. E dire che da questo punto di vista l’esperimento di Coppola sia fallimentare non significa metterne in discussione il passato come autore.
Veniamo poi alla vera nota dolente emersa in questi giorni: lo stato delle cose nella bolla cinefila. Diciamolo, non abbiamo dato un bello spettacolo.
È il momento della critica. Una polarizzazione nei voti era prevedibile e una volta visto il risultato finale inevitabile. La corsa immediatamente sulle barricate nel tentativo di puntare il dito contro l’altro urlando al nemico non era invece necessaria. Ancor peggio va al mondo cinefilo rimasto a casa dal Festival di Cannes. Nonostante apparteniamo, inutile nasconderlo, a una categoria sempre più problematica a causa di nostre colpe, aggredire, offendere determinati professionisti per un’opinione su un film è sempre profondamente sbagliato. Farlo per un film che non si è visto oltrepassa la barriera del ridicolo. Un ottimo spot per chi accusa l’ambiente di gatekeeping e di una generale atmosfera tossica. E forse tutto questo è proprio una delle ragioni per cui sempre meno persone si appassionano in maniera sincera e profonda al mondo cinefilo.
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!