Presentato in concorso allo scorso festival di Cannes e vittima di una delle distribuzioni meno lusinghiere della storia, La Chimera di Alice Rohrwacher approda, dal 12 Maggio, su Sky (e Now). Se siete tra quelli che hanno pregato la proiezione nella propria sala del cuore senza ottenere risultati, il vostro momento è giunto.
Conclusa la masterclass con la regista e la splendida mostra fotografica di scena di Simona Pampallona, intitolata Tra le rovine la luce (trovate alcune foto nell’articolo), noi di Screenworld desideriamo solo addentrarci nel suo cinema infestato. Quel cinema che, come spiega Rorhwacher, resta dentro come una presenza: una storia che continua a parlarti. E noi cogliamo la palla al balzo per farlo.
Sentire il vuoto
Riassunto veloce? Siamo nell’estate del 1983, in un paesino della Tuscia, nell’alto Lazio. Arthur “lo straniero”, appena uscito di prigione cerca di riscriversi una vita e torna alla sua baracca al confine della città, ma una necessità lo spinge a ripercorrere antiche strade. Torna così alla guida della sua vecchia banda di tombaroli: dei saccheggiatori e trafficanti di corredi etruschi. Questi eccentrici personaggi vivono del dialogo tra la vita e la morte, in stretto contatto con quello che è coperto e che non dovrebbe vedere la luce.
Sul nostro protagonista poggia uno sguardo diverso, sintomo manifesto di un dono che lo differenzia dagli altri: sentire il vuoto. Arthur infatti sente il vuoto sotto i piedi, come sente il vuoto lasciatogli da un amore passato, che continua a stringergli il petto. Siete davanti a un film delicato ed a lenta crescita, che rievoca il mito per parlare del presente e del confine tra sacro e violabile, ormai ampiamente varcato.
Niente vi impedirà questa volta di godervi la poesia, perché La Chimera vanta, tra i tanti, un enorme pregio: essere un film che migliora alla seconda visione, quando la trama è ben consolidata in testa e si può fare indigestione di dettagli. Appoggiatevi perciò allo schienale: che sia la vostra prima, seconda o decima visione, questo gioiellino made in Italy sarà pronto a riempire i vostri occhi di meraviglia.
La necessità
Proprio come Arthur, animato da un’esigenza che lo tiene ancorato al sottosuolo, anche la filmografia della Rohrwacher rivela una necessità: quella di farsi mezzo per raggiungere un fine.
C’è così tanto lavoro, che se riuscissi a condensare questo significato stratificato, se trovassi un altro modo, forse cambierei mestiere.
Il viaggio verso il dimenticato e quella sua continua ricerca della sfuggente essenza umana non può che trasformarsi nel suo personale modo di fare cinema. Quello evocativo, liberato dalle catene narrative tradizionali ed infestato come da una presenza costante, che aleggia nell’assenza. Un cinema fantasma, quello di Alice Rohrwacher, capace di mostrarci l’invisibile.
Percepiamo così il vuoto rimasto negli oggetti, capace di capovolgere l’obiettivo e ribaltare la prospettiva, fino ad avvinghiarsi allo stomaco, lasciandolo sospeso. Percepiamo lo smarrimento di Arthur e di chi, come lui, continua imperterrito a seguire la propria chimera: una meraviglia coperta e irraggiungibile. Sopratutto percepiamo la necessità viscerale che accompagna la pellicola, che si srotola davanti a noi scena dopo scena.
Sacro e profano
Nella stessa Chimera grava un bisogno. Lo avvertiamo nei dettagli: nelle inquadrature che impreziosiscono gli oggetti, nei sospiri che sembrano emanare gli stessi e nell’utilizzo della luce per tracciare contorni ed ombre, profanatrice anche nel suo intento rivelatore. Scoperchiare sembra un gesto violento, non consensuale, volto a violare la quiete del mondo dei morti. Quella pace eterna fatta di ombra e silenzio, nascosta agli sguardi corrotti dei vivi e adatta solo alle anime, le uniche che possono capirla.
“Volevo fare un film sull’aura delle cose, quando quelle cose hanno perso l’altro”.
Ecco cosa accade quando gli oggetti vengono privati della loro sacralità, abbandonati alla mercé del miglior acquirente. In un’ epoca in cui qualsiasi cosa sembra essere commerciabile, il valore assume un significato diverso, che sfuma fino al verde del denaro allontanandosi da quello storico, negando il passato e tagliando fuori assieme ad esso il legame con i padri. Sui tombaroli l’invisibile non attecchisce proprio perché non sono più figli dei loro padri, non ne condividono i valori. In loro è proprio cambiato il paradigma. Così le offerte votive, i vasi, le statue sottratte al mondo sotterraneo diventano solo cose vecchie, artefatti, non più cose sacre. Ecco cosa succede quando il sacro esce dal cuore degli uomini.
Straziante, meravigliosa bellezza del creato
Era il 1968 quando in Che cosa sono le nuvole? di Pier Paolo Pasolini, la marionetta interpretata da Totò, una volta arrivata alla discarica alza lo sguardo verso il cielo e, proprio guardando le nuvole, pronuncia questa frase. Alice Rohrwacher cita Pasolini e ne conserva lo sguardo. Diventa una scrutatrice intransigente che coglie quel fascino capace di insinuarsi come luce tra le nuvole, anche tra le rovine. E lo racconta.
L’abilità più autentica di questa cineasta sta forse nel trattare con delicatezza il degrado. Così agli angoli delle inquadrature fa capolinea la sporcizia, il decadimento. Eppure non urla il suo disappunto, lo trattiene e allo stesso tempo non epura né edulcora il messaggio. Lascia al linguaggio cinematografico il potere di evocare i sentimenti, cantandone lodi e tristi sorti.
Per cercare tale bellezza struggente non si può fingere che non esista la profanazione. La violenza deve entrare nel paesaggio.
In Alice Rohrwacher c’è tutta l’anima del passato. Lei è consapevolmente figlia e madre: nella terra su cui cammina altri hanno camminato prima di lei. Il territorio è stato violato e non può starsene in silenzio, ma nel farlo non può che aprire il proprio occhio interiore alla meraviglia.
Il mondo che abbiamo davanti è questo, dobbiamo allora imparare a trasformare lo sguardo.
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