Quasi 60 anni. Tanto separa il presente del cinema dall’avvento inaspettato di una delle saghe più longeve e curiose della fantascienza moderna. Il Pianeta delle Scimmie, perla della distopia creata da Pierre Boulle nella letteratura e poi resa iconica sul grande schermo nel 1968, non nacque certo come mero espediente narrativo da sfruttare. Se il primo film di quella che sarebbe diventata una saga leggendaria ha lasciato un segno indelebile nella storia, lo si deve soprattutto all’esaltazione totale di un sentimento che in quegli anni ha portato la fantascienza verso la sua massima espressione.
Gli autori stessi si sentivano stimolati a sperimentare con un genere che permetteva, attraverso la creatività e l’innovazione, di approcciarsi in maniera differente alla critica sociale o all’umano sentire. Fra questi c’era anche Rod Serling, che proprio da un lampo di genio rese Il Pianeta delle Scimmie un’opera destinata al mito. Il suo finale, fra i colpi di scena più memorabili della storia del cinema, lanciò un messaggio chiaro e diretto: la fantascienza è degli uomini, e agli uomini deve sempre tornare. Un guizzo inaspettato che ha posto le basi per una saga che ancora oggi racconta l’uomo e i dilemmi dell’esistenza, oltre il tempo e lo spazio.
Un vero e proprio fenomeno socioculturale che negli anni ha resistito a capitoli infelici con la sola forza del proprio immaginario, riuscendo persino a raggiungere le vette dell’industria a 50 anni dal primo film. Il Pianeta delle scimmie è tornato nuovamente al cinema (qui la nostra recensione), ispirato da un immaginario eterno e perpetuamente esaltato dalla stessa ambizione: segnare la contemporaneità, colpire il presente attraverso lampi di futuri distanti, ma molto più possibili di quanto si pensi.
Oltre il genere
Una fantascienza purissima che si trasforma in distopia, raccontando un futuro del nostro mondo in cui l’uomo ha finito per cedere a se stesso, condannandosi con le sue stesse mani. L’idea fondante della saga si ripete costantemente, eppure trova sempre nuova ispirazione per storie di drammi, vendette e ritorni, per creare meraviglie decadenti tra citazioni e allegorie. La pura sintesi dell’esistenza celata allo sguardo oltre l’abisso, cercato con l’obiettivo di guardare curiosi, ma soprattutto di “guardarsi”, e quindi capirsi. Probabilmente è proprio l’approccio degli autori a rendere ogni versione del Pianeta delle Scimmie così intrigante: in fondo, l’espediente più congeniale per guardare in faccia la realtà senza subirne davvero le conseguenze è filtrare il racconto attraverso prospettive differenti.
L’opera affascina e intrattiene, la narrazione stimola e stupisce. Concetti semplici, qui resi colonne portanti di una rappresentazione esistenzialista che non ha eguali nel panorama della settima arte. La saga cinematografica ha avuto il grande pregio di disegnare un mondo alla deriva, costruito (e distrutto) sul concetto di popolo e identità: una parabola grigia e solenne che vive nella sottile distanza tra il se e l’altro. “Altro” che, nel solo atto di immaginarsi superiore rispetto all’uomo, stravolge completamente ogni abitudine dello spettatore e lo porta a confrontarsi con un orrore primordiale: che l’uomo si faccia bestia al dileguarsi della speranza, abbracciando la fine e accettando la sua condanna per orgoglio o bramosia.
Spirito e tecnica
Un’evoluzione della saga che non ha toccato soltanto lo stile, ma rispecchia anche il progresso tecnico: dalla prostetica agli effetti visivi fotorealistici, dalla recitazione in costume alla performance capture, la resa di ciascun film è andata di pari passo con la resa dei suoi professionisti. Un lavoro quasi artigianale mirato a conferire agli interpreti il massimo spazio per dar vita ai personaggi, cercando la forma adatta a un contenuto sempre più importante (e ingombrante): Il Pianeta delle Scimmie è una saga che comunica, nel senso più profondo del termine. Un concentrato di riflessioni sul linguaggio e sulla socialità, portate avanti attraverso gesti ed espressioni altrimenti impercettibili, che delineano uno spirito ribelle alimentato dai contrasti.
Il Pianeta delle Scimmie si pone al centro delle intersezioni, tra dicotomie divergenti: il contrasto tra uomo e scimmia, idealmente presente e passato tanto nell’evoluzione quanto nello spirito, e il contrasto tra comunicabilità e incomunicabilità della specie. Ciascun elemento viene posto sotto il velo della natura, risultato tangibile di un giudizio ineluttabile e lapidario nel far emergere il vero nemico: la fallibilità umana. Quella fragilità intrinseca a cui tutti siamo destinati, che ci allontana dalla perfezione e ci condanna a un perpetuo ammaliarci di fronte alla speranza delle ambizioni. Il franchise si costituisce come piena sinfonia di spunti, specchio di una realtà sempre coerente con se stessa, libera dal pregiudizio o dalla retorica.
Scimmia, (oltre)uomo
Coerenza che si mantiene fin a tempi assai recenti, quando al centro del conflitto si è trovato un protagonista ormai a metà tra scimmia e uomo. Il Cesare di Andy Serkis, in questi termini, è stato inequivocabilmente il personaggio più anticonformista possibile. Il lavoro di approfondimento e analisi compiuto da Wyatt e Reeves con la trilogia di pochi anni addietro si è rivelato impressionante soprattutto nelle sue conseguenze: in un mondo già condannato dall’avidità degli uomini e dalla loro supposta superiorità, osservare con pessimismo la costante caduta dei popoli a causa della loro umanità lascia spazio a quesiti oscuri. Alcuni autori suggerirebbero che ci vogliono cuori gelidi per governare un mondo alla deriva, per comprendere la neutralità di una natura a cui è impossibile sottrarsi.
Altri pensano che allontanarsi dalla mediocrità dell’uomo sia allo stesso tempo un atto di superiorità, quindi per questo anche le scimmie (e Cesare per primo) ne pagano il prezzo. Forse gli esseri viventi, come tutte le cose, sono destinati a finire. Questo Reeves lo sapeva bene, ma ciò non lo ha fermato dal raccontare questo doloroso declino alimentando il dubbio sulla vera natura dei suoi personaggi. Aristotele definiva gli animali come creature prive di raziocinio e parola, Reeves ha reso i suoi uomini progressivamente privi della voce, orfani del logos. L’impossibilità di interpretare e raccontare il mondo attraverso l’intelletto, capacità basilare della nostra esistenza, espone Il Pianeta delle Scimmie a dilemmi che covano a lungo prima di trovare risposta. Questo (l’Altro) è un uomo? E se lo è, perché siamo così miopi da non vederlo come tale?
Destini riflessi
Prima di Darwin, l’evoluzione poggiava esclusivamente sul concetto della selezione naturale: chi è favorito sopravvive, ma non certo da solo. Occorrono qualità esclusive e particolari da tramandare geneticamente alle generazioni successive. Jean-Baptiste de Lamark fu il primo a proporre una teoria evoluzionistica che desse risposte concrete a quesiti come quelli posti della saga: gli organismi sviluppano caratteristiche specifiche in risposta all’ambiente in cui vivono e ai rapporti che hanno nel corso della loro esistenza. Le scimmie della saga fanno esattamente così: crescono, si adattano, reagiscono. E per questo sopravvivono all’uomo, intrappolato in un intenso conflitto tra istinto e razionalità.
Il Pianeta delle Scimmie, come dimostra anche la nuova pellicola, persiste perché porta con sé l’importanza socioculturale più vicina allo spirito dell’uomo moderno. La saga medita più di ogni altro franchise sul concetto di eredità – sia essa filmica o intellettuale: tra opere differenti, capaci di intrattenere ed emozionare, Il Pianeta delle Scimmie continua a scrutare l’eternità nel tentativo di carpire le sue prossime sorprese, ottenendo in risposta soltanto dei piccoli cenni. Per quanto infimi, quei frammenti di verità assoluta non sono mai irraggiungibili e possono comunque fare la differenza. Per questo servono ancora opere che permettano di guardare diversamente la realtà in cui viviamo: gli occhi dell’Altro sono (ancora) migliori dei nostri.
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