Disturbante, audace e ancora oggi attualissimo, il film anime del 1997 Perfect Blue arriva per la prima volta al cinema anche in Italia il 22, 23 e 24 aprile grazie a Nexo Digital. Diretto da Satoshi Kon, al suo debutto come regista, supervisionato da Katsuhiro Otomo (il papà di Akira) e tratto dal romanzo di Yoshikazu Takeuchi, il film è un ritratto dell’industria dell’intrattenimento nipponica, in particolare del mondo idol, che racconta una storia dai toni tanto lucidi quanto onirici e, soprattutto, riuscendo ad astrarsi dal reale grazie a un’animazione che cattura in modo unico le ansie della Tokyo degli anni Novanta.
Insomma quale occasione migliore per tornare a parlare di un cult amatissimo che merita di essere (ri)scoperto sia dagli appassionati del genere – e non solo, sia per il suo oggettivo valore come opera cinematografica, sia per aver avuto il coraggio di rappresentare il lato più oscuro di un mondo, solo in apparenza innocente e patinato, che negli anime era sempre stato dipinto diversamente.
Purezza, perfezione e un pizzico di magia
Per comprendere quindi meglio la portata di Perfect Blue facciamo un passo indietro. Nello specifico tra l’inizio degli anni Ottanta e la metà dei Novanta quando in Giappone l’industria delle idol vive il suo momento d’oro con personalità giovanissime che, all’epoca, erano conosciute e idolatrate in tutto il paese. Ma chi sono le idol? Diventate popolari a partire dagli anni Sessanta, le idol giapponesi sono cantanti adolescenti che si esibiscono in gruppi j-pop e, in alcuni casi, anche in serie tv (i cosiddetti dorama); la parola stessa è un termine ombrello che va a raggruppare differenti categorie che fanno riferimento sia alla popolarità che all’ambito: si possono trovare infatti ragazze, ma anche ragazzi, specializzati nel canto e nel ballo, ma anche nell’ambito della moda.
A volte per diventare un idol o una idol non è necessario avere un particolare talento nel canto, dote a cui si tende a preferire la bravura nella danza, la capacità di entrare in empatia con i fan e, ovviamente, l’aderenza a un’estetica kawaii. Idol deve infatti essere sinonimo di perfezione e purezza, motivo per cui atteggiamenti considerati riprovevoli dai fan (avere una relazione, ad esempio, rientra tra i comportamenti da evitare) che nel caso delle ragazze è composto perlopiù da maschi – i cosiddetti wota, possono causare contraccolpi a una carriera già di per sé effimera. Una contraddizione, soprattutto agli occhi di noi occidentali, dal momento che l’ipersessualizzazione delle idol va di pari passo a una sorta di disumanizzazione sul palco e, per certi versi, anche fuori. La popolarità di una idol dura infatti pochi anni a cui segue quella che in gergo viene chiamato sotsugyō (raggiungimento del diploma), un modo altrettanto carino per indicare il ritiro della idol che da lì potrà scegliere se proseguire, non senza difficoltà, una carriera nel mondo dello spettacolo oppure reinventarsi daccapo.
Premesso ciò non stupisce che, rappresentando una parte tanto consistente della cultura pop nipponica, le idol abbiano trovato spazio in diversi anime nel corso degli ultimi quarant’anni. Così, all’inizio degli anni Ottanta, mentre le sognanti melodie del citypop scandivano il tempo di un’epoca ormai mitica, faceva la sua comparsa anche la prima idol degli anime, l’eterea Lynn Minmay del franchise di Macross, la cui voce riusciva a essere anche più potente dei proiettili mentre il suo sogno d’amore andava in pezzi; quasi a riprova del fatto che la purezza di una idol non può essere di certo barrata con la sua umanità. Sarà lo sguardo pieno di nostalgia di un’epoca mai vissuta davvero – a meno che non si sia andati in Giappone negli anni Ottanta, ma un personaggio come il suo non si è più rivisto. Infatti è con i personaggi successivi che l’immagine della idol ha iniziato a prendere posto nell’immaginario collettivo, svalicando anche i confini del paese.
Combinando gli schemi del genere mahō shōjo con l’iconografia idol nascono personaggi come l’iconica Creamy Mami con il suo “pampulu-pimpulu-parim-pampum” ma anche Emi e Lala – tra l’altro tutte e tre realizzate dallo Studio Pierrot, che contribuiscono gettare una base significativa per la rappresentazione delle idol in prodotti anime creando una vera e propria estetica. La stessa Naoko Takeuchi, mangaka di Sailor Moon, ci fa capire la portata del fenomeno caratterizzando il personaggio di Minako Aino/Sailor Venus come una grande appassionata di idol e inserendo nell’ultimo arco narrativo il gruppo Three Lights aka Sailor Starlights. Inoltre, sebbene in Giappone non sia celebre come Italia, vale la pena ricordare Rossana (in originale Sana Kurata) di Kodomo no omocha la quale si divideva tra i suoi impegni di idol, in particolare come attrice, e le vicissitudini tipiche di una preadolescente. Ma è proprio in questo momento che le idol sembrano perdere fascino agli occhi del pubblico: gli anni 2000 sono alle porte, una nuova estetica sta prendendo forma, così come nuove consapevolezze. Perfect Blue arriva proprio qui.
Doppio sogno
Prendendo spunto dall’estetica degli anime precedenti, Satoshi Kon decostruisce infatti l’aura di perfezione di cui si è sempre nutrito l’immaginario idol andando allo stesso tempo a criticare ferocemente un’industria tanto effimera quanto crudele. Nel film seguiamo infatti le vicende di Mima una idol che, a seguito del “conseguimento del diploma”, cerca di costruirsi una carriera come attrice lasciandosi alle spalle l’immagine pura e virginale che le era stata imposta da manager e casa discografica, e con cui era suo dovere approcciarsi al pubblico. Quando inizia a ricevere messaggi da parte di un fan stalker, che non accetta il fatto che lei voglia appropriarsi di un’immagine più adulta rispetto al purissimo simulacro rosa pastello del passato, e a seguito di una scena di stupro girata sul set della serie tv dall’esemplificativo titolo di Doppio Legame, la ragazza perde il contatto con il reale iniziando a domandarsi chi sia realmente Mima.
Il tema centrale della dissociazione del proprio io diventa così centrale per raccontare il dramma di una donna che non vuole riflettersi più nell’immagine della sua adolescenza, restandone comunque prigioniera: complici un rigore sociale che sfocia nella follia di un fan e un’industria che stritola sogni dimostrandosi più interessata, ancora una volta, a sfruttare l’immagine di Mima a suo piacimento, stavolta spogliandola, letteralmente, di quell’allure di perfezione e facendo sì che lei si senta sbagliata, sporca, amorale ma comunque disposta a tutto pur di realizzare il proprio sogno. Del resto Perfect Blue è un viaggio onirico, una discesa dentro sogni che diventano incubi e in cui diventa impossibile riconoscere sé stessi. Come accade a Mima la quale inizia a vedere ovunque il fantasma di un’altra se stessa, o forse addirittura di un’altra, e non riesce a riconoscersi più nella proprio immagine riflessa nello specchio. Non è un caso che una delle immagini finali, nonché una delle più potenti del film, sia proprio un vetro infranto che riflette un viso sporco di sangue. Un viso che non è quello di Mima.
Un mondo di lustrini e bugie
Affascinante sul fronte tecnico e visivo – per chi ama l’animazione guardare film in 2D è sempre un piacere per gli occhi e per il cuore, Perfect Blue ha rappresentato dunque un punto di rottura importante nel racconto delle idol e del loro mondo. La volontà di problematicizzare questa tipologia di personaggio ha portato a un rinnovamento interessante che ha visto sia un’ondata di opere interamente dedicate al tema come ad esempio Full Moon – Canto d’amore la cui protagonista è ragazza malata di cancro che si trasforma in idol grazie all’intervento di due shinigami (nella mitologia nipponica spiriti della morte), sia personaggi comprimari come Misa Amane di Death Note. Per non parlare di videogiochi (The Idolmaster, adattato poi anche in un anime), di media franchise (Love Live! e Uta no Prince-sama) oltre che del film anime Belle in cui la protagonista, schiva e introversa, diventa l’idol più popolare di una realtà virtuale.
Viene quindi spontaneo accostare il film Satoshi Kon a una delle serie anime più particolari della scorsa stagione, Oshi no ko. Vincitrice del premio alla miglior canzone agli scorsi Anime Awards, la serie raccoglie il testimone di Perfect Blue, parlando di stalking, cyberbullismo, svelando al pubblico il dietro le quinte di un mondo fatto di bugie, lacrime e lustrini, pur preferendogli drastici cambi di tono che virano dal dramma alla commedia, dal thriller al sovrannaturale. Un racconto che, a partire dal gioco di parole del titolo (I bambini della stella – hoshi, o I bambini della favorita – oshi), mostra ancora una volta il lato oscuro di un’industria in cui la ricerca della perfezione va di pari passo con la menzogna, e in cui, come in Perfect Blue, la dissociazione dal proprio io da parte dei giovani talent è il prezzo da pagare per raggiungere i propri sogni. O forse per far avverare i propri incubi. Qualcosa che l’ingenuità fanciullesca di Creamy Mami non ci hai mai raccontato e che Perfect Blue è riuscito a fissare in modo talmente vivido da creare un precedente nella cultura pop. Solo per questo varrebbe la pena riguardarlo e, ve lo assicuriamo, non guarderete più le idol allo stesso modo.
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