La società della neve, lungometraggio diretto dal regista spagnolo J.A. Bayona, è tratto dalla vera storia del disastro aereo dell’ottobre del 1972, che vide il Fairchild FH-227D della flotta aerea uruguayana, con a bordo 45 passeggeri, schiantarsi tra i ghiacciai della cordigliera delle Ande. Il film è l’adattamento dell’omonimo libro scritto da Pablo Vierci, e documenta i racconti dei 16 sopravvissuti alla tragedia.
Il survival drama di Bayona, presentato fuori concorso nel 2023 durante l’80ª Mostra del Cinema di Venezia, non ha avuto una distribuzione cinematografica, in quanto, essendo una pellicola Netflix, è stato rilasciato direttamente sulla piattaforma streaming. Per saperne di più su La società della neve potete dare un’occhiata alla nostra recensione.
Il film, basato sulle reali testimonianze dei 16 superstiti raccolte da Vierci nel suo libro, racconta un’incredibile storia vera di sopravvivenza umana avvenuta in condizioni estreme. Scopriamo le drammatiche e reali vicende che si nascondono dietro la tragica storia egregiamente narrata da Bayona in La società della neve.
La partenza del Fairchild FH-227D destinazione Santiago del Cile
12 ottobre 1972, il Fairchild FH-227D della Fuerza Aérea Uruguaya, con a bordo l’intera squadra di rugby universitaria degli Old Christians Club, accompagnata da familiari e amici, è pronto a decollare dall’aeroporto Carrasco di Montevideo con destinazione l’aeroporto Benìtez di Santiago del Cile, dove gli studenti devono disputare un incontro.
Un dettaglio poco noto della vicenda riguarda il fatto che dai primi anni ’70 l’aeronautica militare uruguayana, per cercare di fare cassa, viste le condizioni economiche poco floride, iniziò ad organizzare voli charter operanti su diverse rotte, sia nazionali che internazionali in Sudamerica. È questo il motivo per il quale la squadra non viaggiò su un volo di linea.
La tappa imprevista a Mendoza
Sin da subito, dalla cabina di pilotaggio si resero conto che le condizioni metereologiche erano tutt’altro che favorevoli per affrontare una tratta così pericolosa come quella andina. Infatti, per via del forte mal tempo e della nebbia fitta il comandante, il colonnello Julio César Ferradas, decise con il copilota, iltenente colonnello Dante Héctor Lagurara, di atterrare in Argentina, all’aeroporto di Mendoza, dove il gruppo passò la notte. Tuttavia, il Fairchild, a causa di una norma argentina, che impediva agli aerei stranieri di sostare nel territorio per più di 24 ore, fu costretto a ripartire azzardando, nonostante il clima impervio, l’attraversamento delle Ande.
Il tempo, infatti, non era migliorato a sufficienza, i piloti avevano scarsa visibilità e il volo richiedeva manovre altamente rischiose per superare l’altitudine della catena montuosa. Intorno alle ore 15:00 del 13 ottobre, il comandante avvisava la torre di controllo dell’aeroporto di Santiago di trovarsi presso la città andina di Curicò, chiedendo l’autorizzazione per poter iniziare le manovre di discesa. In realtà si trattò di un errore, sia strumentale che umano, poiché l’aereo si trovava in tutt’altra posizione, ancora sopra il crinale roccioso delle montagne. Per questo quando il Fairchild iniziò la discesa andò subito ad impattare contro la cordigliera delle Ande.
L’impatto e il terribile schianto
L’ala sinistra dell’aereo toccò il fianco della montagna e si staccò tirando fuori dal mezzo due membri dell’equipaggio e tre passeggeri. Subito un altro forte impatto causò la perdita dell’altra ala, mentre il resto della fusoliera si spezzava schiantandosi contro la montagna. I resti della fusoliera iniziarono a scivolare per il pendio fino a fermarsi su un ghiacciaio a oltre 3500 metri di altitudine, in quella che fu rinominata la Valle delle Lacrime. Delle 45 persone a bordo, 12 morirono nell’impatto, mentre altre 5 nelle 24 ore successive all’incidente.
Sin da subito le autorità cilene e argentine si organizzarono in sinergia per attivare le ricerche del charter. Ma le condizioni impervie e la scarsa visibilità impedirono ai soccorritori di localizzare i superstiti, infatti, la fusoliera bianca si mimetizzava perfettamente con il paesaggio andino completamente innevato. Il 21 ottobre, conclusero le attività di ricognizione ritenendo, viste le condizioni proibitive, che tutti i passeggeri fossero ormai morti.
Le prime settimane, l’accampamento e i tentativi di adattamento
La maggior parte dei passeggeri era sopravvissuta allo schianto e si trovava in un terreno inospitale a circa 3800 metri di quota in mezzo alla neve e al ghiaccio con temperature tanto proibitive che la notte scendevano addirittura fino ai 30° sottozero. I superstiti provarono a sopravvivere organizzando un campo base intorno ai resti della fusoliera del Fairchild, che tutte le notti veniva chiusa con un muro di valigie per evitare di far filtrare, o per lo meno ridurre, freddo e gelo. I ragazzi si distribuirono i compiti e razionarono con attenzione le poche e uniche provviste che riuscirono a recuperare dal disastro aereo, sperando che potessero durare il più possibile: il pranzo consisteva in un dito di vino e marmellata, mentre la cena prevedeva un quadratino di cioccolato.
Via via che passavano i giorni, molti dei superstiti, in particolare quelli rimasti gravemente feriti dopo lo schianto, non potendo esser curati in maniera adeguata, iniziarono a morire. Lo sconforto all’interno del gruppo aumentava di giorno in giorno, sia perché le provviste erano sempre più scarse, la carenza di cibo li portò presto a mangiare dentifricio o a preparare il tè con il tabacco delle sigarette, ma anche questa fu una soluzione di breve durata. Anche a causa delle pessime notizie che giungevano al di là delle Ande tramite una radiolina, che confermavano l’interruzione delle ricerche.
Il deterioramento fisico e l’antropofagia
Esattamente come mostra la dura pellicola di Bayona, i sopravvissuti, innanzi l’irrimediabile circostanza dell’esaurimento delle provviste, si trovarono di fronte una decisione estrema, lungamente dibattuta dall’intero gruppo, ma che si rivelò fatalmente inevitabile, vale a dire quella di iniziare a nutrirsi dei cadaveri dei compagni. Una scelta drammatica, anche sul piano etico/morale, che si rivelò tuttavia determinante e soprattutto garantì la sopravvivenza dei superstiti.
Un altro dei dettagli più crudi presenti nel film è quello relativo all’urina nera, sintomo del deterioramento fisico dei sopravvissuti. Sono diverse le patologie che possono causare questo fenomeno, tra cui senza dubbio la presenza di infezioni e infiammazioni all’apparato urinario, nonché un grave stato di disidratazione. Infatti, il gruppo poteva disporre solo della neve per dissetarsi, ma questa, ovviamente difficile da sciogliere, era così fredda che mangiarla provocava fastidii a gengive e apparato digestivo.
Un’altra ragione legata all’inscurimento delle urine era sicuramente dovuto alla rabdomiolisi, la patologia causata dal degrado del tessuto muscolare. Nei casi di grave denutrizione l’organismo consuma le proprie riserve di acidi grassi immagazzinati nei muscoli e nel fegato, un fenomeno di forte destabilizzazione fisica che può causare anche l’espletamento di urina nera.
La valanga del 29 ottobre
Il 29 ottobre una valanga si imbatté sul ghiacciaio seppellendo la fusoliera sotto strati interminabili di neve e uccidendo altre 8 persone. A differenza del film, dove tutti rimasero bloccati, uno dei superstiti, Roy Harley, riuscì a scampare alla valanga, ma fu costretto ad aspettare, a causa di una forte tormenta di neve, ben tre giorni, prima di riuscire a soccorrere i compagni.
In quei giorni, terrorizzati e sepolti vivi all’interno della fusoliera quasi piena di neve, i ragazzi erano quasi del tutto impossibilitati a muoversi, per questo furono costretti a dormire quasi in piedi e a fare i bisogni fisiologici sul posto. Molti dei superstiti definirono quest’ultima come l’esperienza peggiore dell’intera vicenda, addirittura più traumatica del cannibalismo.
La prima spedizione e il ritrovamento della coda dell’aereo
Il 17 novembre, a poco più di un mese dall’incidente, fu inviata una piccola spedizione per ricercare viveri e soccorsi. Partirono tre ragazzi, Roberto Canessa, Nando Parrado e Antonio Vizintin, che dopo due ore di cammino riuscirono a trovare la coda spezzata del charter precipitato, con all’interno viveri (zucchero, cioccolatini, pasticci di carne, rum, coca-cola) e abiti puliti.
Nonostante questo piccolo risultato frustrazione e sconforto aumentavano. Infatti, Rafael Echavarren non riuscì a sopravvivere a causa delle gravi ferite alle gambe che andarono in gangrena. Fu l’ultimo membro del gruppo a perire. A dicembre, quasi due mesi dopo il disastro, erano rimasti solo in 16.
La seconda decisiva spedizione
La neve ormai stava iniziando a sciogliersi, il gruppo era allo stremo psicofisico delle forze e anche i viveri stavano per esaurirsi. Decisero quindi di organizzare una nuova spedizione, l’obiettivo era raggiungere il Cile a piedi. Furono scelti nuovamente Roberto Canessa, Nando Parrado e Antonio Vizintin, che partirono il 12 dicembre 1972, a due mesi dall’incidente.
Arrivati sulla cima della montagna uno di loro, Antonio Vizintin, tornò indietro, poiché si resero conto che, vista la lunga escursione da intraprendere, le razioni di cibo non sarebbero state sufficienti per tre persone. Proseguirono Roberto Canessa e Nando Parrado che finalmente dopo 10 faticosissimi giorni di cammino riuscirono a incontrare qualcuno. La prima persona che venne a conoscenza della presenza di superstiti del volo charter Fairchild FH-227D fu un mandriano della zona, Sergio Catalan.
I soccorsi si attivarono immediatamente, Catalan percorse chilometri a cavallo per avvertire le autorità, che organizzarono una spedizione di due elicotteri per recuperare gli altri 14 superstiti. L’inferno per i 16 sopravvissuti al disastro aereo delle Ande finì il 23 dicembre 1972, ma il doloroso ricordo di quei 70, interminabili, giorni sarebbe stato per sempre indelebilmente impresso nel loro cuore.
Il ritorno a casa, il libro di Read e la scoperta del cannibalismo
Nel 2013, è stato istituito a Montevideo, capitale dell’Uruguay, il Museo Andes 1972 – Andes Crash Memorial, per onorare la memoria dei 29 passeggeri che perirono durante questa tragica esperienza, ma allo stesso tempo per celebrare l’impresa, a tratti veramente eroica, dei 16 che riuscirono a sopravvivere, resistere e tornare a casa.
Il mondo venne a conoscenza della verità dietro la sopravvivenza del gruppo già nel 1974, grazie al libro di Piers Paul Read, Tabù – La vera storia dei sopravvissuti sulle Ande, che raccolse le prime crude, dettagliate e sconvolgenti testimonianze sull’accaduto. Quando l’opinione pubblica seppe del cannibalismo, o più precisamente dell’antropofagia, buona parte di essa criticò aspramente i 16 superstiti, per questa pratica ritenuta inumana.
La pellicola diretta da Bayona non è la prima a narrare questa vicenda. Infatti, La società della neve è il terzo film a mettere in scena la tragedia del Fairchild FH-227D, dopo I sopravvissuti delle Ande (1976) di René Cardona e Alive – Sopravvissuti (1993) di Frank Marshall. Per ulteriori approfondimenti sull’interessante pellicola di J.A. Bayona si potrebbe recuperare il nostro podcast Guida per riconoscere i tuoi film.
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