Il nuovo film scritto e diretto da Emerald Fennell, Saltburn, approda il 22 dicembre su Amazon Prime Video Italia. Il lungometraggio, debuttato in estate al Telluride Film Festival, ha fin da subito fatto molto parlare di sé: nella breve finestra di tempo del suo rilascio in sala negli USA si è infatti guadagnato il podio dei maggiori incassi del periodo, ma soprattutto ha riscontrato attenzioni e consenso da gran parte del pubblico e della critica internazionale. Ma, aldilà delle qualità del film, perché bisognerebbe guardare Saltburn?
Emerald Fennell, un’autrice promettente
Saltburn è il secondo lungometraggio di Fennell, autrice conosciuta al grande pubblico per il suo esordio alla regia Promising Young Woman, un film controverso, chiacchieratissimo e amato. Com’è noto, il film rielaborava la riflessione sulla cultura patriarcale dello stupro attraverso lenti e mezzi innovativi, fornendo con il suo amaro twist un’anti-catarsi sconvolgente. La sua innovativa e originale presa di posizione fu ai tempi motivo di dibattito e discussione critica per spettatori e studiosi e gli valse anche un premio Oscar alla Migliore sceneggiatura originale.
Tutto ciò naturalmente grava Saltburn di tutta una serie di aspettative, misurandosi inevitabilmente con un esordio celebre e celebrato: nonostante le due opere comunque siano completamente diverse a livello di trama e sviluppo, per l’autrice in realtà possono essere quasi dei sequel per quanto la loro relazione sia in realtà strettamente interconnessa.
La trama di Saltburn e i temi
Il film narra la storia di Oliver (Barry Keoghan) un giovane studente lower class di Oxford che sembra faticare ad ambientarsi in un posto che non gli appartiene. Apparentemente per caso, un giorno intreccia un’amicizia con Felix (Jacob Elordi), ragazzo ricchissimo e popolare che lo inviterà a soggiornare per l’estate nella residenza di famiglia, Saltburn. La presenza di Oliver sconvolgerà l’equilibrio del nucleo borghese e cambierà per sempre le loro vite. Paragonato da molti a Teorema (1968) o a Il talento di Mr. Ripley (1999), il film gioca sul trope dell’elemento fuori posto che si fa spazio all’interno del nucleo chiuso della famiglia borghese, mostrando inevitabilmente in questo modo anche tutta una certa architettura sociale. I
l film, in realtà, non sembra in nessuna maniera proporsi come critica sociale politica e pura, utilizzando l’espediente solo per esasperare drammaturgicamente i conflitti creando uno scenario grottesco e assurdo dove i ricchi vengono dipinti come svitati, viziati e totalmente scollati dalla realtà, incapaci di comprendere ciò che è al di fuori di loro, rimanendo vittime della loro brillante inadeguatezza. E se Fennell stessa è stata criticata in passato per la sua estrazione sociale, chi meglio di lei può in realtà rappresentare certe dinamiche? Il film è anche un crescendo di situazioni paradossali, di bugie e di inganni, i quali culminano verso il finale in almeno due twist e nell’epilogo, rendendo manifesta la sua struttura circolare e categorizzandosi come una sorta di lungo flashback. Sono l’ossessione e il desiderio che fanno da padroni, l’irrazionalità dei sentimenti, gli impeti animali, il rapporto tra sesso, amore, violenza e oppressione trainano la storia in una catena di passioni distruttive.
Questa saturazione di temi, eventi e situazioni fa sì che durante la visione non si capisca mai dove Saltburn voglia arrivare, con la potenzialità di frustrare uno spettatore attento alla gestione meticolosa del tempo narrativo ma allo stesso tempo con il vantaggio di giocare sul piano dell’ambiguo e del grottesco, mostrando situazioni borderline tra thriller, noir e horror. È molto difficile, infatti, parlare della trama del film senza fare spoiler proprio perché uno dei suoi punti di forza è proprio quell’imprevedibilità che solletica la curiosità dello spettatore, inerme di fronte a uno spettacolo folle e inaspettato.
Tra genere e multimedialità
Emerald Fennell è a tutti gli effetti una delle artiste che più stanno plasmando il panorama della regia e dell’autorialità femminile del nuovo millennio e lo fa partire dal piccolo schermo, co-sceneggiando e co-producendo la serie Killing Eve (2018-2022) con l’amica Phoebe Waller-Bridge, un’opera dall’ambigua moralità che mette in scena un gioco di inseguimento tra una serial killer spietata, Villanelle (Jodie Comer) e la detective che si occupa della sua cattura, Eve (Sandra Oh).
La serie BBC basata sui romanzi di Luke Jennings gioca quindi sulla coppia di opposti binari, dove attrazione e ossessione reciproca si fondono pericolosamente, dinamica che Saltburn riecheggia con Oliver e Felix che si configurano come figure speculari, poli opposti ma complementari. Amore, ossessione, desiderio e distruzione sembrano per Fennell la stessa cosa, dimostrando anche una messa in discussione dei rapporti umani e romantici figlia del suo tempo, nella cultura millennial.
L’impatto di Killing Eve, ma soprattutto di Promising Young Woman, dimostrano quindi anche un interesse narrativo verso storie e personagge spietate, ambivalenti, attraverso una scrittura cinica e amara che rompe con un femminile idealizzato, angelicato e unidimensionale. Il collante delle opere di Fennell sembra essere la mancanza di redenzione e liberazione, dove situazioni e psicologie vengono messe a nudo senza giungere a una conclusione liberatoria. Questa posizione molto forte, chiara nell’esordio alla regia, è riscontrabile anche in Saltburn che se pure non si prende mai troppo sul serio, elemento da tenere sempre a mente, lascia un impatto non indifferente su ogni spettatore, anche quello più restio.
Perché vedere Saltburn?
Tra Pasolini e Highsmith, l’autrice sembra in realtà mostrare una preferenza per i thriller psicosessuali degli anni ’90 ma soprattutto per il british gothic country house movie, quel filone di film fortemente ispirati al romanzo gotico del Settecento e Ottocento ricchi di elementi romantici e horror thriller. Tra i film più influenti per il suo cinema, Fennell cita per esempio The innocents (1961), film basato su Il giro di vite (1989) di Henry James, ma anche Cruel Intentions (1999) e Shining (1980). In Saltburn sembra inoltre evidente anche l’ispirazione a Peter Greenaway e in particolare al suo The Draughtsman’s Contract (1982), di cui si riprende l’elemento esterno che sconvolge gli equilibri e la figura della grande dimora di campagna che diventa microcosmo e palcoscenico di nevrosi e tensioni anche sessuali violente.
A suo agio nell’esplorazione del genere cinematografico, la regista confeziona un thriller folle dai toni provocatori ma scanzonati, senza didascalismo né moralismo, non rinunciando però a scene forti e dal deciso impatto visivo, impreziosite dalle performance di un eccellente cast composto, oltre che dai due ottimi protagonisti Barry Keoghan e Jacob Elordi, da un’eccentrica Rosamund Pike, da Richard E. Grant, Alison Oliver e Archie Madekwe. Con una colonna sonora anni ’90 e 2000, citazioni alla cultura pop, al cinema, ai Blur e ai Pulp, Saltburn è un film “sexy e disgustoso”, un viaggio folle e conturbante tra ossessione e potere che più che configurarsi come dramma politico e sociale appare rientrare in quel filone di film sensuali della fine del millennio con quella giuste dose di kitsch e di barocco, ricordandoci che il cinema, molto spesso, può essere anche solo un bellissimo spettacolo.
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