Presentato alla 76esima edizione del Festival di Cannes, l’ultimo capolavoro di Alice Rohrwacher La chimera approda questa settimana nelle sale italiane. Poliedrica, poetica, rurale, sociale, molti sono gli aggettivi che si possono accostare all’opera della regista tosco-umbra la quale può essere definita a tutti gli effetti una delle ultime autrici italiane. La candidatura agli Oscar 2023 per Le pupille, terza volta per un cortometraggio italiano e prima volta per una donna italiana, testimonia la forte influenza del suo cinema a livello internazionale. Amata in Europa quanto negli Stati Uniti, Bong Joon Ho l’ha inserita nella lista dei 20 registi contemporanei più promettenti. Ma qual è il segreto di tale successo?
Tra storia del cinema e innovazione
Un aspetto che caratterizza il cinema di Rohrwacher è il suo interesse per la tradizione italiana, dal neorealismo al cinema poetico, tra l’atmosfera sospesa di Olmi e Piavoli e l’onirismo felliniano, coniugato a quel cinema delle donne che rende il personale universale. La sua regia, dunque, è fortemente debitrice alla storia del cinema e ne rinnova le forme dando vita a una visione autoriale decisamente innovativa e originale, in grado di far presa su un pubblico molto vasto.
Il suo cinema è un cinema di volti, di corpi, di dettagli, di un ensemble spesso fatto di esordienti, tra i quali emergono Maria Alexandra Lungu (vista anche in Re Granchio), Yle Yara Vianello (protagonista quest’anno de La bella estate) e Agnese Graziani, attrici spesso ricorrenti, parte di una combriccola di antidivi circensi e teatrali, in un cinema di persone più che di personaggi. Carrellate in campi lunghi seguono questi soggetti nella loro interazione con la natura, in attimi di contemplazione del paesaggio rosselliniana che è specchio tanto sociale quanto psicologico.
Montatrice, oltre che regista e sceneggiatrice, Rohrwacher offre nella messa in scena anche una lezione estetica creando un suo mondo non solo tematico, ma anche del tutto visivo. Dettagli, inquadrature fisse e lunghe, primi piani, piani sequenza e un interesse per una dimensione intima quasi documentaria rendono immediatamente riconoscibile uno stile molto interessato al dispositivo e alla fotografia, curata in tutti i lungometraggi dalla francese Hélène Louvart, autrice che tra gli altri ha lavorato con Agnes Varda, Wim Wenders, Eliza Hittman e Claire Denis. Colori terrosi, naturali, una grana grezza da Super 16 conducono un’osservazione silenziosa del soggetto umano che diventa allo stesso tempo ricerca sull’immagine e riflessione estetica sul paesaggio.
Un neo-neorealismo femminista
Rohrwacher percorre dunque un terreno ispirato al passato ma del tutto originale specialmente per le storie che racconta. Il suo cinema è un cinema dei margini, degli ultimi, ma anche un cinema dei piccoli. Piccoli come i bambini (o ragazzi), sempre presenti nelle sue opere, piccoli come quei gruppi di individui considerati irrilevanti a livello sociale ma anche come cinema delle piccole cose, dei micro gesti ma anche del grande coraggio che si cela dietro di essi.
L’esordio Corpo Celeste, forse il suo film più impietoso, racconta di una famiglia emigrata in Svizzera che ritorna nella Puglia natía, mostrandone le difficoltà nell’inserirsi nella comunità su più piani. La protagonista Marta è una ragazzina di tredici anni schiacciata da una provincia cattobigotta e alla ricerca strenua di un suo posto in una comunità che seppur molto religiosa, non accoglie realmente. In questo contesto la regista apre a una riflessione sulla fede e sulla religione, la sua interazione con le piccole personalità del microcosmo provinciale e mette in scena la ribellione tacita e la resistenza di una bambina sola di fronte a un’istituzione secolare. Questo discorso ricorrente di interazione tra società, individuo e ribellione è poi straordinariamente simile a quello portato avanti ne Le Pupille, dove le bambine del collegio sfidano coraggiosamente come mini eroine la rigidità delle suore attraverso due gesti semplicissimi ma rivoluzionari, ballare e mangiare una torta.
È ne Le meraviglie che è ancor di più esplicito il percorso di ribellione per la protagonista Gelsomina e le sorelle, le quali cercano e richiedono la possibilità di scegliere il proprio futuro al di là della dimensione rurale della loro fattoria imposta dal padre apicoltore, in un finale dolceamaro che esalta la libertà di scelta. Parzialmente autobiografico, il lungometraggio del 2014 è una rappresentazione straordinaria di forza femminile e di crescita e un coming of age estivo dal sapore di miele.
In questo cinema di persone più che di personaggi, i temi che emergono ruotano attorno i concetti di autodeterminazione e di libertà, in un senso che è sociale e politico nel suo mettere in scena le contraddizioni del consumismo e del capitalismo, il contrasto tra metropoli, progresso e resistenza della natura che diventa anche metafora del femminile. Per questo non stupisce che tra i film preferiti la regista spesso cita Vagabond di Varda, un inno alla libertà femminile che è fusione con la natura e ritorno a una concezione ancestrale di umanità.
È proprio anche la storia e il rapporto tra visibile e invisibile che Alice Rohrwacher indaga, specialmente nell’ideale trilogia Le meraviglie, Lazzaro Felice e La chimera, in una ricerca del bello tra presente e passato e riflessione sui rapporti umani e la loro evoluzione in una società sempre più complessa e consumista. In questo contesto i personaggi femminili – e non solo – risultano sfaccettati, incoerenti e anche a volte difficili, sempre rappresentanti di mondi interiori potenti e profondi e portatori tanto di contraddizioni che di sentimenti e impeti primordiali in un ritorno a un Io infantile che è tutto inconscio e grezza umanità.
Per un cinema italiano sempre più globale
Intellettuale e cinefilo ma non solo, il cinema di Rohrwacher veicola narrazioni dotate di una forte potenza espressiva, toccando le corde emotive dello spettatore e unendo cultura alta e cultura bassa, tra riferimenti a Elsa Morante, Anna Maria Ortese e al cinema sovietico, ma anche ad Ambra Angiolini, il reality televisivo e la musica pop. La sua opera infatti si presta a diversi livelli di lettura, a diversi strati proprio come il sito archeologico di una tomba etrusca, capace di parlare a generazioni e a individui diversissimi e acquisendo uno status di riconoscimento internazionale, dato ad esempio da Martin Scorsese, produttore esecutivo di Lazzaro Felice e Alfonso Cuarón che figura nello stesso ruolo per Le pupille.
Il successo del cinema di Alice Rohrwacher si muove quindi senza dubbio a partire dallo straordinario connubio tra riconoscibile e originale, in una rielaborazione del tutto innovativa e attuale, ma le ragioni sono da riscontrare anche nella grande libertà creativa offerta da un produttore attento come Carlo Cresto-Dina e la sua Tempesta Film che attraverso le collaborazioni con Arte France e Rai Cinema ha saputo investire su un cinema d’autore un po’ atipico, dimostrando che in Italia un cinema diverso si può fare ed è più vivo che mai, basta dare fiducia ai progetti originali e – perché no – anche spazio alle tante donne che negli ultimi anni si stanno appropriando con coraggio del grande schermo.
I film di Alice Rohrwacher sono un’immersione in una dimensione sospesa e rarefatta ma quanto più grezza possibile, in un cinema di sottrazione che smaschera contraddizioni e architetture di potere con un forte senso politico di critica che non rinuncia alla poesia per veicolare un messaggio di amore, armonia e delicata osservazione. In un mondo apparentemente cinico e crudele e in un’industria nazionale spesso pigra e stagnante, il cinema di Rohrwacher è un baluardo di speranza per un cinema del futuro attuale, necessario e femminile.
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