20 Luglio 1969, l’Apollo 11 porta l’uomo sulla luna. Nonostante la guerra in Vietnam e i movimenti di protesta la gente non può fare a meno di guardare il domani con ottimismo. Il boom economico è al suo apice e, malgrado infinite contraddizioni che non possono essere percepite come tali – o almeno non ancora – tutto sembra andare alla grande.
Il presente e il futuro si sfiorano. Lo spazio è a portata di mano e, come in una puntata dei The Jetsons o Star Trek, i bambini sognano missioni ai confini della realtà guardando fuori dalla finestra. La luna, piccola e sgranata nella sua immagine distorta in televisori da 12 pollici, non è mai stata così vicina e luminosa.
A cinquantaquattro anni dall’allunaggio guardiamo ancora il nostro satellite attraverso schermi, ora più grandi e altamente tecnologici, ma per assurdo tutto pare allontanarsi sempre di più. Come se quel mistero, ormai svelato, avesse perso fascino. Come se ci fossimo abituati a guardare con meraviglia le immagini dello spazio, dimenticandoci anche di alzare gli occhi al cielo.
Quella lunga estate calda
Tra ricordi persi del tempo e sedimenti rielaborati dalla memoria collettiva, molti di quelli che c’erano ricordano un’estate caldissima: in Italia le temperature medie di luglio si aggiravano sui 30°, un “dettaglio” che oggi, alle soglie dei 40°, provoca una smorfia più che amara.
In ogni caso poco importa se si tratta di un falso ricordo. La canicola di luglio dell’estate del 1969 rientra in quella narrativa in cui storia e epica tendono a confondersi tra gli echi di Space Oddity alla radio, la “telecronaca al buio” che Tito Stagno fece per gli italiani (negli USA, sulla CBS, c’era un altro grande telecronista, Walter Cronkite) e un’infinità di suggestioni visive, sonore e immaginarie. Chiunque non fosse stato lì non potrà mai avere idea di cosa abbia significato vedere presente e futuro correre sullo stesso binario, nell’accezione più romantica e naïf che esista.
Un sentimento che, per esempio, Apollo 10 e mezzo di Richard Linklater coglie perfettamente ri-tratteggiando con il rotoscopio un momento storico in cui tutti avevano in casa un’astronave di cartone e fissavano il cielo convinti che prima o poi avrebbero visto un disco volante. Attraverso gli occhi meravigliati e sognanti del giovane protagonista che guarda e riguarda 2001: Odissea nello spazio ci rendiamo conto di quanto il sogno dello spazio fosse qualcosa di ben radicato nella cultura occidentale, americana in particolare, e di quanto l’Apollo 11 abbia rappresentato uno spartiacque nella cultura popolare contemporanea. Infatti, da allora, nulla sarebbe stato più come prima.
A quei tempi si guardava al futuro con così tanto entusiasmo e ottimismo che le voci contrarie al cosiddetto moondoggle (gioco di parole che può essere tradotto con “fanfaronata lunare”) erano poche, o comunque non avevano granché spazio sui media. La sensibilità ambientale non esisteva e noi oggi siamo qui a pagarne le conseguenze… sì, anche a causa dell’innocente sconsideratezza di quei tempi. Malgrado ciò non possiamo fare a meno di percepire con nostalgia qualcosa che non abbiamo neanche mai vissuto davvero. Un momento in cui la fantascienza era quasi reale e il presente una corsa a perdifiato verso un orizzonte infinito di possibilità.
In questo senso l’Apollo 11 è stato senza dubbio un approdo, un punto di non ritorno in positivo e in negativo. Un evento che ha allo stesso tempo attuato e sublimato la fascinazione nei confronti dello spazio: un’attrazione che, in realtà, aveva radici già molto profonde e che nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso ha trovato la sua più ampia espressione.
Let me play among the stars
Un anno prima di morire il Presidente Kennedy pronunciò queste parole nel celebre discorso tenutosi presso l’Università Rice a Houston In Texas: “Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e di fare le altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili.”
Rileggendole oggi è impossibile non pensare a quanto questo discorso sia anacronistico, figlio del suo tempo e delle sue (in)consapevolezze. Ciononostante è una perfetta cartina tornasole del clima che si respirava in quegli anni, ovviamente negli USA e non solo. Un mood in equilibrio tra il costante ottimismo del boom, le proteste giovanili e l’eco della violenza del Vietnam.
Con tutte le contraddizioni che portava con sé, molte delle quali di cui si sarebbe presa coscienza dopo, guardare allo spazio equivaleva guardare al futuro. Un ipotetico 2000, dai tratti fantascientifici, lontano e vicinissimo al contempo che tutti non vedevano l’ora di raggiungere. Un po’ come nella canzone Nel 2000 di Bruno Martino in cui si anticipava la partenza di un razzo verso la luna già nel 1959.
In quegli anni la malia verso il mondo lunare è al suo culmine. Sono centinaia le composizioni musicali che anticipavano universi futuribili e dischi volanti, tra queste The Flying Saucer Parts 1 & 2 (1956): non una vera e propria canzone ma uno dei primissimi esempi di mash-up in cui veniva addirittura raccontato l’arrivo di un disco volante. Il tutto utilizzando hit preesistenti e rifacendosi in larga parte all’adattamento de La guerra dei mondi di Orson Welles, che già nel 1938 aveva angosciato gli ascoltatori americani, ignari che si trattasse di uno sceneggiato radiofonico.
Andando verso gli anni Sessanta si fanno sempre più presenti sonorità in cui lo spazio, in particolare la luna, vengono descritti in modo sofisticato e ovattato rispecchiando il tipico gusto del momento. Nel 1966 Frank Sinatra, pioniere dei concept album, fece uscire Moonlight Sinatra: un disco in cui tutte le tracce sono accomunate dal tema lunare. I brani sono tutti standard jazz e canzoni popolari, anche se manca la celeberrima Fly Me to the Moon. Composta nel 1954 e incisa da innumerevoli artisti, nel 1964 questa fu registrata da Sinatra con l’orchestra di Count Basie e l’arrangiamento di Quincy Jones. Questa celeberrima versione fu ascoltata da Buzz Aldrin, uno degli astronauti dell’Apollo 11, sul suo lettore Sony TC-50 diventando il simbolo della sua epoca e, al contempo, dell’immaginario spaziale per gran parte dell’Occidente.
A questo proposito forse non tutti ricordano un dettaglio interessante: gli astronauti dell’Apollo erano stati dotati di un lettore portatile e di mixtapes più o meno a tema, così da avere una colonna sonora durante la traversata spaziale. In particolare Neil Armstrong, come ricordato da Damien Chazelle in First Man, richiese esplicitamente Music Out of the Moon un 78 giri del 1947 registrato dal bandleader Les Baxter con composizioni di Harry Revel.
Tra sonorità jazz ariose che sfociano nella lounge e squarci nel futuro dati dal caratteristico suono del theremin, il disco esplorava sonorità spaziali e fantascientifiche molto in anticipo sui tempi. Un EP di soli 18 minuti, quasi una colonna sonora senza film, ma talmente suggestivo da farci comprendere quanto fosse forte già alla fine degli anni Quaranta la curiosità verso i misteri dello spazio. Qualcosa di cui la luna diventa, chiaramente, l’emblema. Non è un caso poi che, nel corso della sua carriera Los Baxter abbia composto anche colonne sonore per film sci-fi, e nel 1958 abbia realizzato un secondo album, Space Escapade, in linea con il lavoro precedente e la cui cover mostrava due giovani astronauti insieme a ragazze aliene con un razzo sullo sfondo.
Questo ci fa capire quanto questo immaginario fosse stato fortemente plasmato dal rapporto che le persone avevano con lo schermo, il cinema e la neonata tv. Ci basti pensare agli innumerevoli film di fantascienza usciti nei cinema tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Sessanta. Tra questi ci sono La guerra dei mondi, nella sua versione cinematografica del 1953, ma anche Ultimatum alla Terra o L’invasione degli ultracorpi e a tutta una serie di B-movies in cui lo spazio rappresentava la frontiera del futuro.
È chiaro perciò che l’Apollo 11 non sia stato solo “un piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità” ma anche il concretizzarsi di un immaginario audiovisivo che, dai tempi di Melies, si è plasmato sì, guardando il cielo ma soprattutto attraverso l’audiovisivo, lo schermo. In questo modo l’immagine lunare è stata a lungo modellata dando vita a una fascinazione che no, non è mai venuta meno. Ma da quella domenica di luglio del 1969 è sicuramente cambiata.
Un esempio? Nel 1972 e nel 1973 uscivano rispettivamente The Dark Side of the Moon e Solaris: l’euforica era dei viaggi spaziali si stava consumando per lasciare spazio a spedizioni nell’oscurità dell’animo umano. La disillusione di quegli anni ha fatto il resto generando un disincanto che, con tutta probabilità, aveva già messo da tempo radici negli occhi di chi sognava altri mondi guardando attraverso uno schermo.
Kubrick aveva già provato a dircelo nel 1968 e lo stesso Bowie l’anno seguente cantava “Planet Earth is blue, and there’s nothing I can do”.
Cosa resta della luna?
Da allora lo spazio ha continuato a farci visita attraverso lo schermo. Tuttavia bombardati come siamo da contenuti e alle prese con questioni d’attualità d’altro genere, pare aver perso quell’appeal di meraviglia agli occhi del grande pubblico. È come se lassù ci fossimo già stati ormai tante volte, sebbene la maggior parte di noi non abbia mai compiuto viaggi spaziali e, con tutta probabilità, non lo farà mai.
La verità è che, tra disincanto e abitudine, abbiamo imparato a riconoscere quelle immagini come familiari. Siamo ormai talmente assuefatti dalle fotografie in alta definizione inviateci dai telescopi spaziali o dai robot che passeggiano indisturbati sulla Luna o su Marte che non ci facciano più neanche caso. Nel corso di questi cinquantaquattro anni più i televisori diventavano grandi come uno schermo del cinema più la fascinazione si è sfilacciata, facendo venir meno il mistero di quel buio in bianco e nero. Un mistero che incuriosiva chiunque e, a tratti, faceva anche un po’ paura.
Questo non significa che nessuno non abbia provato a recuperare quella fascinazione, con risultati buoni o meno buoni: pensiamo a Moon di Duncan Jones, tra l’altro figlio di David Bowie, Interstellar, Contact, ma anche The Martian o Gravity. Gli esempi sono numerosi, ma la sensazione è che la luna sia sempre più piccola e lontana.
Eppure, nonostante l’epoca d’oro dello spazio sia ormai finita restando congelata nel tempo, l’immaginario lunare rimane potente e basta poco perché riprenda vita. Apollo 10 e mezzo, citato in apertura, è uscito su Netflix l’anno scorso ed è uno dei racconti più belli sull’allunaggio perché riesce a distillare lo spirito della sua epoca. Ma non solo. A quasi trent’anni di distanza dall’uscita, un prodotto come Neon Genesis Evangelion, proveniente dall’altra parte del mondo, offre ancora (purtroppo non nella versione presente su Netflix) alcune meravigliose sequenze sulle note di Fly Me to the Moon. Ben ventisei, una per ogni per ogni episodio, ognuna delle quali, nella sua semplicità, risulta essere ben più evocativa di tante altre produzioni che strizzano l’occhio all’immaginario lunare.
L’eredità di quel 20 luglio è, in un modo o nell’altro, anche questo. Rendendo possibile l’impossibile, l’Apollo 11 ha cambiato il modo in cui alziamo gli occhi al cielo, ma anche quello con cui ci confrontiamo con il futuribile, il mistero. Tanto da farci pensare, non senza un pizzico di malinconia, che coloro che c’erano hanno avuto la possibilità di stupirsi costantemente del proprio presente: guardando la realtà e riguardandola attraverso uno schermo.
Ma la domanda è: il presente è davvero meno misterioso oppure siamo noi ad aver cambiato il nostro modo di osservare?
E voi cosa ne pensate? Siete d'accordo con le nostre riflessioni?
Se volete commentare a caldo questo articolo insieme alla redazione e agli altri lettori, unitevi al nostro nuovissimo gruppo Telegram ScreenWorld Assemble! dove troverete una community di persone con interessi proprio come i vostri e con cui scambiare riflessioni su tutti i contenuti originali di ScreenWorld ma anche sulle ultime novità riguardanti cinema, serie, libri, fumetti, giochi e molto altro!