Un portatile, la soddisfazione di pubblicare almeno un libro e le parole di una madre come unica fonte storica. Così, durante due settimane di quella che poteva sembrare un’estate come tante, è nato il Commissario Ricciardi dalla fantasia di Maurizio De Giovanni. Arrivato tendenzialmente tardi al grande pubblico, grazie a questa figura che si immerge alla perfezione nel genere giallo e nell’ambientazione d’epoca, l’autore ha conquistato l’attenzione dell’editoria, anche a livello internazionale. Grazie alla sua comparsa, successivamente, sono nati I bastardi di Pizzofalcone, Mina Settembre e le avventure di Sara. Nonostante tutto, però nessuno è riuscito a creare quell’affezione forte e costante che i lettori ed il pubblico televisivo provano per il malinconico Ricciardi.
Non è certo un caso, infatti, l’entusiasmo con cui è stato accolto l’ultimo romanzo Caminito e nemmeno le aspettative che accompagnano la seconda stagione della serie tv in onda su Rai 1 da lunedì 6 marzo. Dato per certo tutto questo, però, è d’obbligo porsi un quesito: cosa rende Ricciardi così incredibilmente speciale ed unico da trasformarlo in uno dei personaggi letterari più amati degli ultimi anni? Indubbiamente la sua approvazione televisiva si deve molto anche all’interpretazione di Lino Guanciale. Oltre questo, però, ci sono degli elementi peculiari e fondamentali che provengono proprio dalle pagine di De Giovanni e, soprattutto, da quel senso d’ineluttabile tristezza che accompagna i passi quotidiani di questo personaggio.
Un personaggio in evoluzione
Da un punto di vista letterario Ricciardi rientra in quelli che possono essere definiti personaggi in evoluzione. Questo vuol dire, dunque, che per quanto riguarda la narrazione il suo percorso personale è più importante, se non addirittura funzionale, a quello del delitto affrontato. In questo senso, dunque, Ricciardi s’immerge nell’architettura tipica del giallo tradizionale, non fosse altro per l’ambientazione passata, per poi andare a stravolgere l’andamento con una presenza scenica destinata a raccontare la sua stessa anima.
Di fatto, De Giovanni utilizza un’accurata descrizione di quest’uomo che, però, non rimane assolutamente fine a se stessa ma si riempie di un significato profondo, spesso sconvolgente. L’eleganza curata ma mai ostentata, l’ostinazione a non indossare il cappello, lo sguardo melanconico eppure attento, l’andatura lenta ma costante ad evitare il mondo e quegli occhi verdi, intensi, destinate a vedere ciò che per gli altri è invisibile.
In questo modo Ricciardi emerge immediatamente dalle pagine del libro e fa capire, senza possibilità di dubbio alcuno, che si sta per intraprendere con lui un viaggio non sempre facile o appagante. Il suo scopo, infatti, non è tanto quello di andare a trovare il nome di un assassino o dare finalmente pace alle anime che si riflettono nei loro ultimi istanti di fronte al suo sguardo. Il compito del Commissario, piuttosto, è quello di raccontare la sua storia e del luogo in cui si muove.
Per questo motivo, dunque, non ci troviamo di fronte ad un personaggio fisso in stile Hercule Poirot, nato essenzialmente come alter ego investigativo. Piuttosto dalle parole di De Giovanni nasce un uomo che prende il posto del simbolo e della maschera interpretativa. In questo senso ogni singolo romanzo si trasforma in un elemento in più per comprendere le molte ombre che accompagnano quest’uomo. Un ulteriore passo verso la conoscenza di Ricciardi o la disillusione di alcune sicurezze acquisite. E non c’è nulla di più affascinante di una strada in costante definizione. In un viaggio in cui le diverse mete non vengono preannunciate ma lasciate svelarsi un poco alla volta.
La normalità dell’eroe
Da quanto ci viene raccontato noi sappiamo che Ricciardi, in realtà, è il barone di Malomonte, nato e cresciuto tra le montagne del Cilento. Stando alla sua condizione sociale ed economica, dunque, potrebbe benissimo vive di rendita dei suoi terreni. Nonostante questo, però, sceglie di entrare nella polizia regia e di non prestare nessuna attenzione alle sue finanze. Di questo aspetto, come altri d’ordine pratico, se ne occuperà sempre l’anziana tata Rosa e, dopo la sua morte, la nipote Nelide. Il suo atteggiamento non nasce certo da un senso di superiorità o di malcelata supponenza nei confronti degli umani affanni. Tutt’altra convinzione lo muove.
Lontano dal vivere la sua condizione come un privilegio, Ricciardi è essenzialmente un uomo per bene, schivo al mondo e impaurito dalle emozioni. Convinto di non meritare nessun particolare atteggiamento deferente per le sue origini e tanto meno per il “fatto”, che lo perseguita fin da quando è bambino. In questo senso, dunque, si va delineando la figura di un uomo capace di essere, al tempo stesso, normale ed eccezionale. A renderlo speciale, indubbiamente, è il dono che vive come una dannazione.
Ma, andando ben oltre la capacità di ascoltare le anime dei morti, a farne un eroe straordinario è l’integrità e la serietà che muove ogni suo passo. Due qualità rare, soprattutto se incastonate all’interno di una realtà storica in cui la ricerca del privilegio, sociale o politico, è un elemento essenziale per garantirsi l’immunità. Due aspetti che, però, definiscono anche la sua normalità. Perché, in fin dei conti, è esattamente così che dovrebbe comportarsi una persona perbene.
La tristezza di Ricciardi
Il commissario indossa sempre un impermeabile grigio e cammina per le vie di Napoli con le mani ben affondate nelle tasche. Questo tipo di atteggiamento ha un significato ben preciso nella psicologia di Ricciardi. Serve, infatti, a mascherare il costante movimento cui è sottoposto quando s’innervosisce. E la cosa capita spesso. Tutto questo, poi, va a definire anche quella che è ben nota come la tristezza del commissario. Una caratteristica che, insieme alla sua forte umanità, ha definito in senso assoluto il fascino di Ricciardi.
Dal punto di vista strettamente letterario, infatti, rappresenta la perfetta via di mezzo tra la figura vincente e quella perennemente tormentata di un potenziale perdente. I suoi passi si muovono costantemente su una sorta di linea di demarcazione senza mai valicare uno dei due ambiti. Per quanto riguarda la sua professionalità, infatti, De Giovanni gli ha regalato il piacere del successo e la capacità di leggere nell’animo umano tanto da risolvere anche i casi più intricati. Anche se spesso si trova a dover pagare un prezzo personale alto in amarezza e perdita della fiducia nel genere umano.
Per quanto riguarda il privato, però, ci si trova di fronte ad un uomo così consapevole dei propri limiti, da diventare il peggior nemico di se stesso. Come accade spesso nella quotidianità, infatti, Ricciardi impersona la paura di rischiare, di andare oltre per afferrare ciò che si merita. In questo senso, dunque, la sua proverbiale tristezza deriva non solo dal passato ma anche dalla considerazione dell’inabilità alla felicità. Un atteggiamento che dovrebbe spaventare o infastidire un lettore ma che, in questo caso diventa fonte d’immedesimazione e comprensione.
A suo vantaggio, infatti, Ricciardi non esibisce alcun atteggiamento recriminatorio o vittimistico. Il mondo intorno a sé non ha nessuna colpa della malinconia che lo attanaglia e lo immobilizza. Anche in questo caso, dunque, si fa carico in senso assoluto di tutte le responsabilità, cercando solo di non contaminare chi incrocia la sua strada. Così, in un’epoca come il ventennio fascista in cui si inneggia al machismo, Ricciardi ha il coraggio e la sfrontatezza di camminare costantemente affiancato alle proprie fragilità senza doverne provare vergogna. In questo modo offre un modello umano alternativo strutturato indubbiamente sul senso di giustizia e lealtà ma, soprattutto, su di uno struggente bisogno d’amore che, in fin dei conti, tutti ci accomuna.