Secondo un vecchio detto, l’abito non fa il monaco. Ma sarà sempre vero oppure esistono dei casi in cui l’apparenza conquista un ruolo fondamentale per dare forma ad una professionalità o ad un personaggio? Iniziamo con il dire che, per quanto riguarda il mondo dello spettacolo e, soprattutto, quello dei performer l’aspetto conta e come. Basta considerare, ad esempio, il clamore mediatico sollevato intorno agli abiti che Chiara Ferragni ha scelto per la prossima edizione del Festival di Sanremo.
Ad essere onesti, però, la questione look è stata sempre al centro della storica kermesse canora, andando a conquistare pagine e titoli di giornale. Ricordiamo, ad esempio, l’abito da sera indossato da Antonella Clerici durante l’edizione del 2005 accanto a Paolo Bonolis. Non tutti sanno che quel modello, realizzato da Gai Mattiolo oltre 100 metri di organza di tulle e 15.000 cristalli Swarovsky, è stato poi battuto all’asta per 26.250 euro. Una cifra che dovrebbe dare la proporzione di quanto quel tripudio di rosa fosse diventato iconico.
Andando oltre il gusto personale, però, i look portati sul palcoscenico di Sanremo hanno rappresentato anche e soprattutto il riflesso di un’evoluzione sociale e culturale. Questo vuol dire che, in modo consapevole o meno, hanno raccontato un preciso momento storico e il suo gusto. Per questo motivo, dunque, proviamo a ripercorrere i più indimenticabili per scoprire che tipo d’italiani eravamo e, forse, siamo ancora.
Gli anni ’50 e ’60: la compostezza della Pizzi e la giovinezza di Mina
All’inizio c’era il salone delle feste del Casinò e la voce di Nunzio Filogamo a commentare. Era il 1951 e il Festival di Sanremo apriva la sua prima edizione, quella che gran parte delle persone avrebbe ascoltato attraverso la radio. Perché in quell’Italia lontana la televisione non era ancora arrivata a conquistare la curiosità della gente. In questo contesto, dunque, quale importanza potevano avere gli abiti? In realtà molta, soprattutto per rimandare un senso di decoro personale e rispetto per il luogo in cui ci si trovava.
Non è un caso, dunque, che l’abito bianco di pizzo indossato da Nilla Pizzi per tre sere consecutive e con cui ha vinto quell’edizione, sia entrato nella storia della manifestazione. Gli ascoltatori che da casa seguivano le dettagliate descrizioni di Filogamo hanno avuto la possibilità d’immaginarlo, esattamente come lo scintillio della sala, la profusione di fiori e le signore del pubblico adornate da gioielli raffinatissimi. Quel piccolo ma numeroso paese, dunque, sognava di poter spiare, anche solo per un momento, nei fasti e nei lussi dell’altra faccia della loro stessa realtà: la classe sociale più abbiente. In sostanza, ci si trova a confronto con una realtà assolutamente classista in cui le donne hanno il dovere di presentarsi vestite in modo adeguato. Gli abiti, in questo modo, diventano il riflesso della condizione sociale e dell’educazione acquisita.
Una visione destinata a cambiare, anche se molto lentamente. I primi accenni arrivano esattamente dieci anni dopo. È il 1961 e sul palcoscenico fa la sua comparsa una giovanissima Mina. Sono ancora lontani i tempi in cui diventerà la signora indiscussa di Studio Uno. Per ora è solo una ragazza con una gran voce che non vede l’ora di farla risuonare a pieni polmoni. In effetti, lei viene inserita tra la così detta categoria degli “urlatori”. Ma oltre alle sue Mille bolle blu ad entrare negli annali della manifestazione è il suo abito. Nulla di stravagante o particolarmente innovativo. Le regole per apparire sul palco sono ancora ferree.
Nonostante questo, però, riesce a personalizzare il vestito, mettendolo in relazione con la canzone e arricchendolo di un tocco di stravaganza. Sull’abito con gonna a ruota, infatti, spiccano evidenti proprio delle bolle blu di varia grandezza. Un particolare che sarà poco apprezzato dalle famiglie italiane che, a quel punto, hanno la possibilità di ammirare tutto dalla tv. Che sia in casa o nelle sale di un bar sotto casa, gli italiani si ritrovano e, attraverso le immagini rimandate sul piccolo schermo, accantonano il sogno e danno il via all’era del giudizio. Da quel momento, dunque l’apparire assume un valore ancora più ampio. Un elemento di cui gli artisti iniziano a tener conto non solo per un fattore di eleganza personale ma anche per veicolare il loro modo d’intendere la musica.
La fine degli anni ’70: il trasformismo di Anna Oxa
Il festival di Sanremo arriva negli anni Settanta, onestamente senza troppi clamori. La cultura è profondamente cambiata e questo spettacolo, anche se ha poco più di vent’anni, sa già di vecchio. Nonostante tutto, però, rappresenta sempre una vetrina importante per i discografici, soprattutto per lanciare dei nuovi artisti. Ed è da loro che arrivano le novità più importanti. Anche e soprattutto dal punto di vista del look.
Tra tutti spicca quello di una giovanissima Anna Oxa. È il 1978 quando presenta Un’emozione da poco. Ha tutta la sfrontatezza e la libertà di una sedicenne e, facendo leva proprio su queste caratteristiche, guadagna il centro del palco dell’Ariston con un look ideato per lei da Ivan Cattaneo. Nell’ordine indossa cravatta a pois, blazer e camicia. Il tutto arricchito da un trucco e parrucco volto ad esaltare la sua bellezza androgena ed il concetto di fluidità. Un argomento che la nostra cultura fatica a considerare ancora oggi. Figurarsi all’epoca.
Gli italiani che la guardano esibire, ancora ignari di trovarsi di fronte ad un’artista camaleontica, interpretano il suo stile come un eccesso dato dall’essere performer. In quel momento, dunque, si crea un distacco tra l’immagine consona per una vita quotidiana e quella più eccentrica consentita solo alle bizzarre creature dello spettacolo. La Oxa, però, stava facendo molto più che moda. Dimostrava di essere “figlia” di un certo tipo di musica che rivendica la paternità di David Bowie, partendo dal glam rock e lo Sturdust per poi approdare alle suggestioni del Duca Bianco. L’Italia medio borghese e popolare, però, non è assolutamente pronta a questo forte vento di novità. Affrontare gli anni di piombo l’hanno immobilizzata e intristita in una forma di muta resistenza. Nonostante questo, la vita scorre comunque e il nuovo è destinato a mutare, ancora una volta, la cultura globale.
Anni ’80 e ’90: Loredana Bertè canta la forza delle donne
Era il 1991. Due reginette del pop italiano salgono sul palco del Festival di Sanremo per dichiarare a gran voce “siamo donne, oltre le gambe c’è di più”. Ovviamente si tratta di Sabrina Salerno e Jo Squillo. E lo fanno indossando abiti corti e aderenti. Una scelta che non si pone assolutamente in contrasto con quanto dichiarato nel brano ma, anzi, evidenzia l’intenzione, da parte delle donne, di non negare più la propria femminilità per essere prese sul serio.
Una visione tutt’altro che scontata visto che l’universo femminile veniva da un decennio di scalate professionali ottenute, però, a colpi di negazione della propria essenza. In sostanza, per poter raggiungere delle posizioni di rilievo, le donne avevano deciso di dover somigliare sempre di più agli uomini. Sia nella predisposizione caratteriale che nello stile. Il look androgino, dunque, prende il sopravvento andando a punire la naturale femminilità del corpo. E non solo.
Il cambiamento di direzione portato da questa semplice canzone e dallo stile scelto dalle due cantanti, però, aveva già fatto sentire la sua presenza durante un’altra edizione della manifestazione canora. Chi non ricorda, infatti, il finto pancione indossato da Loredana Bertè? È il 1986 e dal palco dell’Ariston la cantante è capace di sollevare un polverone mediatico destinato ad offuscare di gran lunga la vittoria di Eros Ramazzotti. Il brano cantato è Re, scritto da Mango, ma Loredana con quell’abito di pelle nero borchiato arricchito dal suo pancione posticcio vuole rimandare un messaggio di forza e vigore. Oltre che di bellezza. Tre caratteristiche che la donna assume proprio in un momento in cui la società la vuole ancora fragile e sottomessa.
La cultura popolare, ovviamente, non è pronta per questo cambio di prospettiva. Il paese è ancora legato ad un retaggio di perbenismo e con una visione piccolo borghese fin troppo coriacea. Ma, se si osservano gli avvenimenti storici, sociali ed artistici si comprende come la situazione stia mutando da molti punti di vista. Ricordiamo che il 1986 è l’anno in cui Falcone e Borsellino iniziamo il primo vero processo alla mafia, il Nobel viene assegnato a Rita Levi Montalcini e True Blue di Madonna, una delle artiste più avanti per quanto riguarda la mentalità e la visione del ruolo femminile, diventa l’album straniero più venduto. Le donne stanno acquisendo padronanza con il suono della loro voce. Comprendono di possedere una forza ed un vigore proprio capaci di metterle al centro della discussione e degli eventi. E la Bertè, con l’abito disegnato per lei dal costumista Sabatelli, non faceva altro che amplificare una visione che stava trovando la sua via espressiva.
2020: la teatralità di Achille Lauro
Nei primi anni del 2000 il palco dell’Ariston non ha assistito a grandi innovazioni dal punto di vista dello stile. Il più delle volte si è puntato ad una eleganza molto glamour o in grado di anticipare delle mode dal gusto più contemporaneo. Per questo, dunque, oltre ai vari brani, gli esperti della comunicazione festivaliera hanno iniziato a commentare gli abiti indossati dagli artisti. Quasi tutti provenienti da importanti maison.
Per vivere una scossa visiva e contenutistica, si è dovuto attendere l’arrivo di un artista che punta sullo studio attento dei suoi look come Achille Lauro. Con lui l’abito lascia il posto al costume e l’esibizione canora diventa performance a tutti gli effetti. È il 2020 quando conquista l’attenzione del pubblico presentandosi sul palcoscenico con una tuta color carne arricchita da Swarovski firmata Gucci. Un look che, veicolando proprio il concetto di teatralità e costume, va ad emulare la figura di San Francesco. L’Italia cattolica si solleva indignata? In parte. Sarà un caso, ma la soglia d’attenzione sembra essere nettamente più bassa, nonostante lo tsunami della pandemia ancora non si sia totalmente abbattuto sulla quotidianità.
Il mondo fuori dalle nostre case sta per implodere. Ma in quel momento il festival di Sanremo continua la sua strada. Così, dal palco dell’Ariston, Achille Lauro offre un’immagine che, nell’eccesso, rimanda un’idea di forte libertà trovando i presupposti per dialogare su tematiche come la libertà di genere e la fluidità. Tutti argomenti che appartengono alla generazione Z che, finalmente, si sente rappresentata anche su di un palcoscenico così istituzionale.
Oltre a questo, poi, definisce anche un concetto di artista a tutto tondo che usa la messa in scena come mezzo narrativo, rafforzativo. Una visione di cui stanno godendo anche i Maneskin. In questo caso, però, ci si scontra ancora con il concetto di fluidità per cui la società non sembra essere pronta. Unico dubbio, in questo caso è che, rispetto ai messaggi arrivati nel passato, ci si trovi di fronte ad una scelta puramente teatrale, priva di un’effettiva convinzione. A svelare l’arcano sarà, ancora una volta, la storia di Sanremo. Basta saper attendere.