È un periodo interessante per gli appassionati di cinema orientale che vivono in Italia. Pochi mesi fa abbiamo avuto la possibilità di vedere sul grande schermo Battle Royale. E adesso, nel giro di una settimana, potremo ammirare in sala la versione restaurata di Audition di Takashi Miike e tutti i film di Park Chan-wook in vista dell’uscita di Decision to Leave. Scelte distributive e di mercato interessanti le cui ragioni si potrebbero ricercare nel successo di produzioni dell’estremo Oriente approdate sulle piattaforme streaming e in quello dei manga che ormai dominano ogni classifica nel mondo dell’editoria. La cosa certa è che rappresenta una grande opportunità per noi spettatori di (ri)scoprire grandi opere direttamente in sala.
Opere appunto come Audition, il film del 1999 con cui Takashi Miike ha raggiunto la meritata fama. Un titolo di cui si è sempre parlato per quel finale esplicito e violento ma che nasconde molto di più. Come vedremo nei paragrafi successivi, Miike in Audition parla delle dinamiche di genere, dell’amore, della società giapponese. Più che descriverle se ne prende gioco, sfruttando e controllando lo sguardo dello spettatore. Perché Audition è da più di vent’anni una grande presa in giro e le vittime di Miike siamo noi che guardiamo.
L’audizione
Come spesso accade nel cinema di Miike, Audition inizia in in medias res. Il film si apre con la morte della moglie di Shigeharu Aoyama, il quale si troverà a dover crescere da solo il figlio Shigehiko. Dopo diversi anni il bambino, diventato ormai adolescente, vede il padre stanco e gli consiglia di cercarsi una nuova compagna. Parlandone con l’amico e produttore cinematografico Yoshigawa i due decidono di organizzare un’audizione per un film che non vedrà mai la luce al fine di far incontrare ad Aoyama più ragazze possibili. Nel giro di poco tempo mettono in piedi questa giornata di provini, con tanto di lettere motivazionali, dove incontreranno decine e decine di donne. Una in particolare colpisce Aoyama sin dalla lettura della lettera per poi sconvolgerlo una volta vista. Si tratta di Asami, giovane ragazza di grande bellezza e dall’attitudine dimessa. Yoshigawa mette in guardia il protagonista sul passato poco chiaro della donna e in generale su una sensazione di inquietudine che gli trasmette Asami. Aoyama però ha ormai deciso e procede nel voler conoscerla meglio. I due iniziano la loro relazione: escono, parlano per ore, fanno un viaggio. Asami però d’un tratto sparisce e le ricerche di Aoyama lo porteranno a scoprire risvolti inquietanti sulla vita della ragazza, per poi arrivare all’ultima e allucinante mezz’ora di film a base di tortura, violenza e trip onirici.
Riflettere sui generi…
Audition è un film con varie sfumature tematiche al suo interno in grado di far emergere letture differenti tra loro del film. Il rapporto tra i due protagonisti può essere visto come un’estremizzazione della classica storia d’amore, con il dolore inferto che diventa la massima espressione del sentimento e della passione. In alternativa non si fatica a trovare in Audition una riflessione sugli emarginati, in generale sulle conseguenze della solitudine e sulla paura nei confronti dell’isolamento sociale ed emotivo. Un’altra lettura, questa più concettuale, vede nel dolore un’esperienza necessaria al comprendere della verità. Da questo punto di vista diventano chiave le scene oniriche durante la tortura di Aoyama che mostrano, al personaggio e di conseguenza allo spettatore, informazioni che lui non dovrebbe avere ma che gli sono concesse proprio grazie a una nuova consapevolezza derivata dalle pene che sta patendo. La spina dorsale di Audition, a livello tematico, risiede però nella visione (auto)critica di Miike sul rapporto e le dinamiche tra generi.
L’ingranaggio fondamentale del film ci viene svelato fin dal principio, ovvero lo sguardo e la considerazione maschile che vede nella donna un oggetto consolatorio. Un memorabilia da tenere in casa in grado di ricordare al maschio la sua virilità, la sua supremazia e nel quale cercare conforto e compassione. È lo stesso Shigehiko a guardare il padre suggerendogli di trovare una ragazza per tornare alla normalità, ristabilendo così il suo ruolo da uomo. L’esemplificazione massima del concetto trova sfogo, come ovvio, nell’audizione. Decine di ragazze guardate e studiate una dopo l’altra come manichini in un centro commerciale, irretite con la promessa di un provino per un film e sbeffeggiate dai due uomini con battute e domande oltre il limite dell’imbarazzo. E non è un caso che nel suo ingresso in scena al minuto 29 Asami vesta completamente di bianco. Un simbolo di purezza e di verginità che subito colpisce e convince Aoyama. Lei è quella giusta. La più innocente, la più innocua, la più sottomessa. Proprio Asami romperà la ruota, rivelando nel turbinio di violenza finale l’idiozia del pensiero di Aoyama. Nel suo mutilare gli uomini li trasforma in soprammobili. In bestie non autosufficienti che si nutrono del suo vomito e dei suoi scarti. Mentre trancia divertita il piede di Aoyama gli rivela che lo fa perché lo ama e così lui non potrà scappare. Ma allo stesso tempo, in quel modo, gli impedisce di ergersi sopra di lei. Lo costringe a un piano inferiore e lo priva di ogni posizione virile. Una violenta de-costruzione del rapporto tra i generi che oggi, in epoca post metoo, può apparire non insolita. Eppure rapportata all’epoca ma soprattutto alla società giapponese, ancora nel 2023 così ancorata all’oggettificazione e mortificazione della figura femminile, mantiene un coraggio e una forza impressionante.
… attraverso i generi
Di solito Audition viene definito un J-Horror. Un’etichetta che nella sua concezione più ampia raggruppa tutti i film d’orrore giapponesi ma che poi ha finito in particolare per catalogare un certo tipo di opere che si basano sugli yūrei (fantasmi tipici del folklore nipponico). Due le opere principali del filone: Ringu, o Ring, e Ju-on, divenuta poi nota col titolo Grudge. Entrambi non hanno certo bisogno di presentazioni vista l’infinita serie di remake americani e sequel a cui hanno dato origine. Audition non solo non fa parte della categoria ma è proprio difficile da incanalare in un genere.
Questo perché Miike si diverte a mutare e a cambiare tono e registro in base alla sequenza. Un’operazione tipica di parte del cinema sudcoreano, in particolare di Bong Joon-ho, che poi avrebbe preso piede nei due decenni successivi.
Audition parte come un shoshingeki, il dramma borghese tipico del cinema giapponese, molto in voga nel periodo tra le due guerre. Poi ha un primo cambio durante l’audizione dove diventa in tutto e per tutto una commedia, con un divertito montaggio serrato chiamato a dare ritmo ai tempi comici. Una volta presentata Asami passa al melodramma, con i due protagonisti che ripercorrono tutte le fasi classiche dei film romantici e in cui viene data grande enfasi a ogni passaggio del rapporto. Infine poi termina con la parte horror che si divide in sequenze da torture porn duro e puro e trip onirici del protagonista. Una ricetta di Miike che va a sposarsi alla perfezione col corpo tematico del racconto. Il regista giapponese si diverte ad abbattere gli equilibri di genere attraverso la commistione tra generi cinematografici e prendendosene gioco. Così come aveva fatto sul piano narrativo, dal punto di vista filmico prende tutti i filoni classici del cinema (dramma, commedia, melodramma) che hanno contribuito a costruire l’immagine tossica del rapporto uomo-donna e li abbatte attraverso l’horror.
Il controllo del nostro sguardo
Takashi Miike ha secondo IMDb 112 credits come regista. L’emblema del cineasta iper-produttivo, bulimico e folle. E nella filmografia di un autore del genere Audition è spesso descritto come il suo film più matto e viscerale. Eppure la sensazione più forte che dà la visione del film è di controllo. Una capacità e una consapevolezza del regista di dosare ogni singolo elemento e di guidare lo spettatore e il suo sguardo. Ci prende in giro Miike ma lo fa con un’insospettabile misura. Asami, l’icona simbolo del film, fa il suo ingresso dopo ben 29 minuti. Passano altri venti minuti prima che Miike decida di inserire il primo vero campanello d’allarme per lo spettatore. Asami è in ginocchio davanti al telefono in attesa di una chiamata di Aoyama, sullo sfondo un sacco di juta il cui contenuto rimane sconosciuto. L’apparecchio squilla, la camera si sposta e vediamo un ghigno formarsi sul volto della ragazza. Un’espressione mefistofelica che immediatamente ci mette sull’attenti. D’un tratto il sacco si muove e rantola.
Miike ci ha preparati a quello che verrà ma prima dell’esplosione di violenza occorreranno altri trenta minuti. Poteva tenersi tutto per un twist finale e invece ha inserito quella destabilizzante informazione a metà film, in modo da tendere i nostri nervi. Il regista gioca con noi esattamente come fa Asami con Aoyama. Guida lo sguardo dello spettatore, lo illude e se ne prende gioco. Arriva poi quella mezz’ora conclusiva con tutto il suo carico di disagio. A differenza di tanti altri film del regista non c’è ironia o divertimento estetico nella violenza di Audition. È fredda, lenta, dolorosa, disperata. Non c’è passione. Ha la concretezza che solo il male può avere. Fino a quel momento Miike ha preparato i nostri nervi tendendoli per poi, tramite Asami, infilarci gli aghi uno ad uno in profondità sibilando un divertito “kiri-kiri-kiri”.
Audition è un’esperienza sensoriale e come tale non è bella o brutta. È totalizzante, dolorosa ma non possiamo farne a meno.