Audrey Hepburn.
Anche chi non è fan della vecchia Hollywood la conosce, avrà visto almeno uno dei suoi film o qualche scatto sul set di Colazione da Tiffany, con il tubino nero, il collier di perle e gli enormi occhiali da sole. Forse avrà visto Blair Waldorf sognare ad occhi aperti di essere lei in Gossip Girl, o più recentemente la protagonista di Emily in Paris renderle omaggio sui gradini del teatro dell’opera di Parigi, Palais Garnier, dove è stato girato Cenerentola a Parigi nel 1957.
Un’icona pop per diverse generazioni, amata tanto dalle donne comuni quanto dalle celebrità, che non mancano occasione per replicare i suoi look più rappresentativi. A trent’anni esatti dalla sua morte, avvenuta il 20 gennaio 1993, è tanto iconica quanto lo era al culmine della sua fama, forse anche di più. Nell’immaginario collettivo il suo nome è diventato sinonimo di eleganza e semplicità, con le sue forme quasi inesistenti e un viso da bambina che le hanno conferito una bellezza acqua e sapone fatta di classe e raffinatezza. Caratteristiche ben lontane dai canoni di bellezza dell’epoca, ma che l’attrice è riuscita sapientemente a trasformare nel suo punto di forza diventando d’ispirazione per molte donne.
Forse è per questo che oggi è così amata anche tra i giovanissimi, che continuano ad emularla e celebrarla portando l’hashtag #audreyhepburn a superare i due milioni su Instagram e i 400 milioni su TikTok (nel momento in cui questo articolo viene pubblicato). Un’attrice da Oscar che ha saputo accorciare la distanza tra cinema e spettatori, facendo sì che la sua eredità a superasse la prova del tempo con alcune lezioni di stile e di vita che noi fan custodiamo gelosamente. Oggi, per celebrarla in occasione del trentesimo anniversario dalla sua scomparsa, vediamo insieme alcuni degli insegnamenti che Audrey Hepburn ci ha lasciato in eredità.
1. Trova sempre del tempo per te stessa
Quello della principessa Ann in Vacanze romane è stato forse il primo ruolo ad averla resa l’icona che oggi conosciamo. Nel 1953 ci racconta una principessa della tradizione, una Raperonzolo confinata nelle mura opprimenti del suo palazzo tra obblighi regali e una vita opprimente che alimenta la sua fame di scoperte. Per questo, una volta giunta a Roma, non perde l’occasione di fuggire per esplorare il mondo esterno e sgattaiolata via nella notte incontra Joe Bradley, un affascinante Gregory Peck che l’accompagna nella sua avventura.
Con una performance da Oscar Audrey Hepburn ci racconta quanto può essere divertente fare la ribelle, tagliarsi i capelli lunghi, girare in vespa e innamorarsi di un reporter americano appena conosciuto. Tutte cose che farebbe qualsiasi giovane donna in cerca di una soluzione alla propria vita opprimente, principessa o meno, e che ci ricordano l’importanza di trovare sempre del tempo per noi stessi. Ci ricorda l’importanza di ricaricarsi e custodire i momenti che ci hanno reso felici nella nostra memoria, ma senza perdere di vista i propri doveri. Alla fine del film, infatti, Ann torna a rispondere delle proprie responsabilità nel ruolo da principessa, ma più carica e consapevole. Quando però una folla di giornalisti le chiede quale tra le città visitate nel suo tour europeo avesse preferito, sebbene il protocollo regale le imponga una fredda imparzialità, non riesce a trattenere la sua preferenza per la nostra capitale. Roma, la città in cui ha sperimentato il sincero divertimento e l’avventura, dove ha trovato il coraggio di dedicarsi del tempo e finalmente riscoprire sé stessa. «Conserverò il ricordo della mia visita qui finché avrò vita».
2. Lasciati sempre ispirare da «dolcezza e decenza»
Sempre in Vacanze Romane Ann confida a Joe Bradley che per lei «il mondo avrebbe bisogno di ritrovare più dolcezza e decenza», anche se forse a parlare in quel caso non era la principessa. Forse era proprio Audrey. Anche lei sognava un mondo in cui tutti rispettano le opinioni altrui, amandosi a vicenda nonostante l’opposizione. Un mondo in cui le persone sono disposte a dare una mano e sorridere persino agli sconosciuti. Parlava così, ma non era di certo un’ipocrita. Come la principessa Ann, anche la Hepburn faceva parte di un gruppo di persone estremamente elitario: quello degli EGOT, ovvero artisti che hanno vinto almeno un Emmy, un Grammy, un Oscar e un Tony. Sono in pochissimi a poter dire di appartenere a questo gruppo, una ventina in totale, ma, nonostante ciò, si è sempre impegnata in prima persona nel nome di quella dolcezza e decenza che tanto proclamava.
Lo ha fatto sin da piccolissima, quando visse le difficoltà della Seconda Guerra Mondiale e, indignata per l’aumento dell’antisemitismo, incanalò la sua rabbia in aiuto della resistenza olandese. Uscì dal conflitto fisicamente debole a causa della malnutrizione dovuta alla carestia che colpì l’Olanda nel 1944-45, ma emotivamente forte e resistente. Così, ispirata dalla sua tragica infanzia, dedicò gli ultimi anni della sua vita ai bambini delle comunità impoverite e devastate dalla guerra. La sua bacheca di riconoscimenti si arricchì con la Medaglia Presidenziale della Libertà (conferitale dal Presidente George H. W. Bush) e il Premio umanitario Jean Hersholt dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences per il suo impatto sull’umanità. Nel 1988 divenne Ambasciatrice di buona volontà dell’UNICEF, continuando a lavorare per la causa fino alla sua morte per cancro nel 1993. Speriamo che anche il suo lavoro umanitario e il suo attivismo possano essere la sua eredità, tra gli standard di portamento, femminilità e classe.
3. “Bella” non devi apparire, ma ti ci devi sentire
«Tutte le ragazze in ogni pagina di Quality hanno grazia, eleganza e fascino.
Cosa c’è di male nel far emergere una ragazza che ha carattere, spirito e intelligenza?»
Questa citazione tratta da Cenerentola a Parigi parla da sé. Ancora oggi sono fin troppe le persone che misurano il valore sulla base di ciò che appare all’esterno, anche se bisogna ammettere che negli ultimi anni il settore della moda ha fatto passi da gigante a tal riguardo. Oggi, sulle pagine di Quality (la rivista al centro del film) la Hepburn avrebbe probabilmente trovato donne di tutte le fisicità, imperfette, che rendono i canoni di bellezza un po’ più accessibili. Un’inclusività che avrebbe apprezzato anche in virtù del fatto che, quando la sua carriera cominciò nei primi anni ’50, era proprio lei l’outsider. In un periodo in cui le donne desideravano abbracciare la femminilità dopo le difficoltà della Grande Depressione e della Seconda Guerra Mondiale, si affermò un tipo di glamour e femminilità presente in molte star di Hollywood dell’epoca come Marilyn Monroe, Elizabeth Taylor, Sophia Loren e Rita Hayworth.
Audrey Hepburn però era diversa: a differenza delle sue coetanee aveva un seno piccolo e una corporatura minuta data dalla malnutrizione negli anni di guerra. Alcuni potrebbero erroneamente definirla più “mascolina”, visti anche i capelli corti. Audrey però trasformò la sua diversità in un punto di forza, acquisendo sempre più padronanza della sua immagine. Se ne accorse il fotografo di moda Cecil Beaton la definì «l’incarnazione pubblica del nostro nuovo ideale femminile», ma anche Fred Astaire in Cenerentola a Parigi, riconoscendo nell’eleganza naturale del personaggio della Hepburn il nuovo volto della rivista di moda. Così, una timida e intellettuale bibliotecaria che disprezza la vita mondana, da un grezzo anatroccolo si trasforma in un meraviglioso cigno, portando sulla prima pagina di Quality anche carattere, spirito e intelligenza. Lei però era sempre la stessa, l’unica cosa ad essere cambiata è la sua consapevolezza.
4. A volte anche l’abito fa il monaco
Per sentirsi veramente bella ed alimentare la sopracitata consapevolezza di sé, Audrey Hepburn ha raccontato spesso di come abbia trovato nella moda il sostegno di cui aveva bisogno. Chiaramente la bellezza di una donna non dipende dal suo aspetto, era la prima sostenitrice di questo pensiero, ma a volte capita di trovare la mancata sicurezza in un bell’abito di sartoria. Non bisogna infatti stupirsi se oggi l’attributo più noto di Audrey Hepburn sia proprio il suo stile, visto che ha dato un volto alla moda della costumista Edith Head ed è stata la musa di Hubert de Givenchy. Con i suoi look ha affermato i pantaloni nella moda femminile, ma soprattutto ha dato alle donne una via d’uscita dagli imponenti tacchi a spillo con il suo amore per le scarpe basse. Questo aspetto della sua carriera lo ritroviamo prepotentemente in film come in Charade (1963), My Fair Lady (1964) e Sabrina (1954), film in cui l’evoluzione dei personaggi della Hepburn è espressa proprio dai suoi abiti.
Prendiamo ad esempio Sabrina: quando la protagonista viene presentata per la prima volta al pubblico è ancora una ragazza infantile, indossa un abito da scolaretta con lunghe maniche scure e i capelli tirati indietro in una coda di cavallo. È perdutamente innamorata di David ma ancora immatura, tanto da arrampicarsi su un albero per spiarlo mentre è ad una festa. Le cose cambiano quando si trasferisce a Parigi per frequentare una scuola di cucina: qui studia molte cose, cresce e impara «a vivere, non solo a stare in disparte a guardare». Due anni dopo, al suo ritorno, Sabrina è irriconoscibile: capelli più corti e un abbigliamento sofisticato sono abbastanza perché nessuno la riconosca. Un cambiamento che trova l’apice nell’abito (firmato rigorosamente da Givenchy) che indossa alla festa a cui era stata invitata proprio da David: bianco, senza spalline, cosparso di piccoli bouquet di fiori. Ora che è diventata una donna il bianco dell’abito allude alla sua verginità e alla speranza di diventare presto una sposa. Sebbene il messaggio del film sia frutto del suo tempo e non sia tra i più progressisti, facendo leva principalmente sul canone estetico, quella di Sabrina in abito da festa rimane comunque una delle immagini più belle e riconoscibili della Hepburn.
5. Una donna può bastare a sé stessa
Se l’immagine dell’abito bianco a fiori di Sabrina è facilmente riconoscibile, l’abito nero di Holly Golightly in Colazione da Tiffany la definisce. Questa immagine è diventata parte della cultura hollywoodiana, anche se praticamente tutti i look indossati dalla Hepburn in questo film sono diventati praticamente iconici (ce lo ricorda anche la serie della HBO Big Little Lies che li ha ripresi tutti, alcuni anche tratti da My Fair Lady, per i personaggi interpretati da Nicole Kidman, Reese Witherspoon, Laura Dern, Shailene Woodley e Zoe Kravitz.
Audrey Hepburn nei panni di Holly Golightly è una splendida mondana newyorkese che fa crollare ai suoi piedi la metà degli uomini presenti nella stanza, trasformando così in realtà le fantasie del suo precedente alter ego in Arianna (1957). Se l’eroina romantica della Hepburn nel film del 1957 scambia la sua innocenza con la sessualità, stilando una lista immaginaria di amanti per sembrare alla pari del playboy Gary Cooper, in Colazione da Tiffany riesce finalmente a pareggiare i conti con la controparte maschile.
Così, in un mondo dove le donne erano condannate al binomio santa-puttana, con la sua particolare interpretazione di Holly Golightly (Colazione da Tiffany), spigolosa e seducente, fragile ma indipendente, manda in frantumi i canoni di femminilità degli anni Cinquanta e segna l’avvento di un nuovo modello di donna. Magari non getta i semi del più moderno movimento femminista, ma rende accettabili, anzi, attraenti, alcuni nuovi modelli di condotta: per le donne diventa ok non sposarsi ed essere sessualmente attive, divertirsi, bastare a sé stesse.
In conclusione, ci piace pensare che l’eredità duratura della Hepburn finirà per allontanarsi dalla sua reputazione di amante elegante e romantica, lasciando più spazio ad una donna che ha trovato il modo di sopravvivere ai costrutti che la circondano. Film dopo film, la signora del romanticismo e della dolcezza si è trasformata nella donna che ha trasformato il suo dolore fisico in un’iconografia di stile e che è riuscita a infondere nei suoi personaggi la lotta della vita reale.