Non c’è gloria senza sacrificio. Chi ha combattuto sulle spesse mura del Fosso di Helm lo sa bene: l’alba arriva soltanto dopo la notte più buia e profonda. E il successo cammina spesso sulle macerie di chi è venuto prima. Una morale che chi ama Il Signore degli Anelli conosce bene. Perché oltre vent’anni prima dell’arrivo della splendida trilogia di Peter Jackson, qualcun altro aveva tentato una folle impresa: filmare l’infilmabile. Dare forma solida alle ammalianti parole del professor Tolkien e proiettare l’intera Terra di Mezzo sul grande schermo. Quasi un incantesimo proibito. L’ambizioso stregone si chiama Ralph Bakshi. L’uomo che prima di tutti ha osato dare vita a un film animato su Il Signore degli Anelli. Lo ha fatto nel 1978 con un cartoon bizzarro, anarchico, sperimentale e sfortunato. Un film rimasto senza sequel, ma comunque capace di influenzare l’immaginario di Peter Jackson e, di conseguenza, di tutti noi.
Una genesi travagliata
Battaglie, sconfitte e abbandoni. Era scritto nel destino che Il Signore degli Anelli d Bakshi dovesse sudare e sgomitare fin dalla sua travagliata genesi. È il 1969 quando la United Artists acquista i diritti de Il Signore degli Anelli per una trasposizione sul grande schermo. Il prezzo, col senno si poi, è ridicolo: 104mila dollari. Briciole di pan di via. Le ambizioni della major sono altissime, tanto da contattare un certo Stanley Kubrick per la regia. Dopo il suo gentile “no, grazie”, il progetto passa nelle mani di John Boorman, che si mette subito al lavoro su un adattamento molto ardito. La sua idea è chiara: Il Signore degli Anelli non si può trasporre in modo fedele. Bisogna tradire Tolkien per rendere visibile Tolkien. E così prova a condensare l’intera trilogia in un solo film, concedendosi una marea di libertà. Prima inventa una serie di contrasti interni alla Compagnia dell’Anello (mettendo spesso Gandalf contro Boromir oppure facendo picchiare Gimli pur di fargli ricordare la parola magica per entrare a Moria) e poi sessualizza il personaggio di Galadriel, al centro delle attenzioni anche di Frodo.
Una sceneggiatura quasi blasfema che la United Artists rifiuta. Così Boorman viene licenziato e il progetto rimane in stand by fino a quando è lo stesso Ralph Bakshi a proporsi, vedendo ne Il signore degli anelli una ghiotta occasione per la sua carriera. Una carriera in cui il regista israeliano aveva sposato una missione: distruggere il pregiudizio che percepiva l’animazione come un genere per ragazzi ed elevarlo a linguaggio universale, capace di parlare anche a un pubblico adulto. Inchiostratore e animatore appassionato, Bakshi si è già costruito un nome, lavorando a film animati disinibiti e provocatori. Nel 1972 esce Fritz il gatto, il primo cartone animato della storia vietato ai minori. Un film impregnato di satira e sesso, che mette in mostra un character design sgraziato e un cinismo fuori dal comune. Ecco perché Bakshi vede ne Il Signore degli Anelli una grande occasione. Rispettando fedelmente l’epica di Tolkien, potrà finalmente dare vita a un fantasy sporco, crudo e realistico. Un’animazione adulta dal retrogusto quasi storico, dove temi con la morte e la paura potranno andare a braccetto con una raccapricciante rappresentazione del Male supremo. Lo farà mettendo in cantiere non uno, ma bene due film. Perché Il Signore degli Anelli ha bisogno di spazio e di aria per dare libero sfogo al suo vasto immaginario. Spazio e aria che, purtroppo, Bakshi non avrà mai davvero.
Con coraggio e anarchia
Distruggere prima di creare. La missione di Bakshi è la stessa di Frodo. Se lo hobbit deve distruggere l’Unico Anello per il bene della Terra di Mezzo, il regista vuole demolire lo standard animato disneyano (smielato e favolistico) per dare vita a un’animazione più libera e sfrontata. Quello di Bakshi è uno spirito quasi punk, un lavoro di rottura che non cerca compromessi. Questo soltanto a livello stilistico e tecnico, perché a livello narrativo/filologico il rispetto per l’opera di Tolkien è alla base del suo Il Signore degli Anelli. Lo conferma anche il suo incontro con Priscilla Tolkien, figlia del professore, in cui il regista rassicura l’erede sul certosino trattamento dell’opera. L’idea è quella di un adattamento in due film, col primo lungometraggio che avrebbe coperto La Compagnia dell’Anello e quasi tutto Le Due Torri e un secondo tutto dedicato a Il Ritorno del Re. Il primo principio fondamentale da cui parte Bakshi è il design dei personaggi: realistico, mai caricaturale e cartoonesco. Così Aragorn diventa uno spigoloso eroe tutto d’un pezzo con sembianze da nativo americano, Boromir assomiglia a un vichingo, Gandalf gesticola e si muove come un vero anziano saggio, Gimli non è affatto un nano grottesco e gli hobbit sono simili a ragazzini curiosi, senza mai sembrare dei pupazzi. A questo character design così rigoroso bisogna aggiungere anche altri due elementi che caratterizzeranno lo stile artistico di questo Il Signore degli Anelli.
Il primo è il lavoro maniacale fatto con i fondali. Dipinti con acquerelli, gli sfondi sono evocativi, mai banali e capaci di rievocare tantissimi dettagli di un mondo che per la prima volta veniva tradotto in immagini in movimento. Lo stesso Bakshi arriverà a definire l’opera un dipinto animato. Pura pittura in movimento. Il secondo tratto stilistico distintivo è l’uso del rotoscopio, una tecnica spesso considerata una scorciatoia poco onorevole, ma necessaria. Il rotoscopio consiste nel ricalco di disegni tratti da fotogrammi ricavati da riprese reali e conserva un grande realismo nelle movenze dei personaggi. Una scelta obbligata, visto che le numerose scene di massa e la portata epica della narrazione avrebbe reso impossibile disegnare tutto a mano con tecnica tradizionale.
La resa su schermo sarà Sgraziata, grezza e imperfetta, ma per quanto piene di sbavature, tutte le sequenze in rotoscopio del film sono a loro modo ipnotiche. Quasi espressioniste e a tratti inquietanti soprattutto quando ci troviamo davanti i Nazgûl. Però la folle impresa di Bakshi si scontra presto con una lavorazione più lunga e impegnativa del previsto. La United Artists non concede al regista proroghe sull’uscita del film e così Il Signore degli Anelli viene chiuso in fretta e furia, rinunciando a ben 20 minuti di pellicola. Nonostante questo il film esce in sala con i suoi imponenti 132 minuti. All’epoca un minutaggio notevole e raro per un film animato. Per onestà nei confronti del pubblico Bakshi vuole inserire Parte 1 nel titolo del film, in modo da non lasciare lo spettatore spiazzato alla fine di un film incompleto. Però, ancora una volta, la United Artists non è d’accordo: “Nessuno paga un biglietto per vedere metà film”. Un film che a metà rimase davvero. Visto che il secondo film non uscirà mai.
Cosa è rimasto
Il Signore degli Anelli arriva in sala nel novembre del 1978. Costato 4 milioni di dollari, ne incassa 30, ma l’accoglienza della critica è tiepida. Molti non hanno amato l’eccessiva compressione narrativa, la trama lacunosa, piena di salti temporali bruschi e una caratterizzazione troppo stereotipata della Compagnia dell’Anello. Bakshi si affida troppo all’azione e non approfondisce mai le intenzioni di Aragorn, Frodo e Sam, dipingendoli in modo superficiale. Ma se l’aspetto narrativo è zoppiccante, a livello visivo Il Signore degli Anelli rimane un’opera affascinante, da conservare e proteggere per l’audacia della sua messa in scena. Un’opera fondamentale per tutto quello che verrà dopo. E per “tutto” intendiamo proprio lei: la sacra Trilogia di Peter Jackson. Jackson non ha mai nascosto la sua stima nei confronti di Bakshi, definendo il suo lavoro coraggioso e ambizioso. Un lavoro che ha avuto una grandissima influenza su Il Signore degli Anelli jacksoniano, rappresentando una sicura base di partenza per i tre film.
A livello narrativo molti tagli operati da Bakshi vengono conservati (ad esempio la rinuncia al personaggio di Tom Bombadil) e tante inquadrature riprese alla lettera (soprattutto ne La Compagnia dell’Anell). Ripensiamo alla scena in cui il Nazgûl bracca gli hobbit nella foresta ne La Compagnia dell’Anello o alla presentazione misteriosa di Aragorn all’interno della locanda del Puledro Impennato. In generale Jackson adotta l’impostazione artistica votata al realismo tanto voluta da Bakshi, e da partendo da lì crea il suo personale capolavoro. Ecco come un film incompiuto, imperfetto e diventato un cult molti anni dopo la sua uscita, ha lasciato un’impronta indelebile sul cinema che sarebbe venuto dopo. E non parliamo solo dell’ascendente su Peter Jackson, ma di un modo di concepire l’animazione in anticipo sui tempi. Prima degli splendiori dello Studio Ghibli, della rivoluzione di Akira e dei lavori oscuri Don Bluth, Bakshi ha dimostrato a tutti come un cartone animato poteva parlare un linguaggio adulto, con personaggi ruvidi e uno stile sgraziato. Lo ha fatto con un film personale, prezioso, capace di disegnare epica e di lasciare un solco nella storia del cinema. Un film che ci ha messo decenni per essere compreso, ma alla fine ci ha ghermito davvero.
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