Da una parte un sequel che rappresenta l’evoluzione del blockbuster americano anni ’80 appoggiato sull’ultima vera star di Hollywood. Un film che non accenna a interrompere la sua corsa al botteghino, costruita non su un’apertura stellare come tanti altri ma su un percorso costante grazie al passaparola e a visioni multiple.
Dall’altra il ritorno, dopo otto anni di stop, di un autore di culto ma da sempre allergico al mainstream, con una co-produzione internazionale atipica e dal budget bassissimo. Diciamolo: Crimes of the Future e Top Gun: Maverick all’apparenza sono film agli antipodi. Eppure, come recita il detto, gli opposti si attraggono.
Entrambi rappresentano, senza dubbio, un segnale positivo per i cinefili e più in generale per il mondo del cinema.
Top Gun: Maverick va a sopperire a una certa mancanza di action-adventure fisico e tangibile, all’interno di un panorama, quello dei blockbuster americani, così saturo di cinecomics e di CGI. Un’opera che mette in primo piano l’esperienza in sala e dove la firma, più che di Kosinski, è di Tom Cruise, ormai assurto al ruolo di “prodautore” per citare Roy Menarini ed Enrico Ghezzi, ovvero produttore, attore e autore di sé stesso e del suo stesso mito. Il ritorno di Cronenberg, non solo alla regia di un film in concorso a Cannes e distribuito nelle sale ma alle sue tematiche classiche, dopo più di un ventennio passato ad esplorare mutazioni più mentali che fisiche, rappresenta anch’esso un segnale importante. Ma, come vedremo nella nostra analisi, non sono solo i segnali positivi a legare questi due film quanto piuttosto dei legami tematici.
Questione di corpi
Della centralità del corpo nella filmografia di David Cronenberg non ne veniamo a conoscenza oggi. L’autore canadese ha basato una larga parte della sua carriera (e della sua nomea) sul corpo umano. Lo ha studiato, lo ha modificato, ne ha cercato il significato e i limiti film dopo film. Crimes of the Future prosegue il discorso cronenberghiano in questo senso e, anzi, ne racchiude ogni sfumatura passata. Non è però un caso che il fulcro della cinematografia corporea del canadese risieda nel periodo che inizia dalla fine degli anni’70 per poi proseguire lungo quasi tutti gli ’80. Un decennio in cui in tutto l’Occidente, in particolare negli USA di Reagan, ha nutrito particolare interesse per il corpo, le sue sfumature e le sue esagerazioni. Lo stesso periodo in cui ha proliferato a Hollywood il cinema action più artigianale, più fisico e anche più testosteronico. Il decennio in cui si è anche formato Tom Cruise, in cui è uscito il primo Top Gun e a cui sembra voler spiritualmente e tecnicamente tornare questo sequel.
Top Gun: Maverick è un film che si basa sui corpi e sull’esperienza fisica in modo differente ma non meno fondante di quanto faccia Crimes of the Future. Non ci stiamo ovviamente riferendo agli addominali dei piloti durante la partita di football sulla spiaggia (o quella di Beach Volley dell’originale). Ci riferiamo all’ossessione con cui la camera osserva e studia i volti e le espressioni degli attori durante le sessioni di volo. Il modo in cui si contorcono i visi e si sforzano i fisici sottoposti ad alti valori di g-force. Top Gun: Maverick ha poi rimesso al centro, con la spettacolarità visiva e con la richiesta di mantenere un certo volume sonoro nelle sale, l’esperienza fisica della sala.
D’altra parte non possiamo che pensare, quando si tratta di corpi, a Tom Cruise e al suo aspetto quasi eterno.
La centralità della performance
Nella sua seconda parte di carriera, diciamo dopo il ritorno dall’abisso mediatico a cui lo aveva relegato Scientology, Tom Cruise ha deciso di dedicarsi quasi completamente all’action. Non in un modo convenzionale alla Liam Neeson ma di avvicinare ogni sua interpretazione a una sorta di live performance. È così che ogni capitolo di Mission: Impossibile è passato dall’essere “la nuova avventura di Ethan Hunt” al diventare “il nuovo stunt di Tom Cruise”. Un percorso che vede ogni volta alzare l’asticella della fattibilità e della pericolosità di una tacca: Tom Cruise che trattiene il respiro per 6 minuti; Tom Cruise imbracato all’ala di un aereo mentre decolla; Tom Cruise che si butta da una rampa giù per una montagna con una moto e apre il paracadute in volo. Alla domanda ricevuta durante un Q&A al Festival di Cannes 2022, in cui gli veniva chiesto il perché amasse rischiare la vita sul set, la risposta è stata: “Nessuno ha chiesto a Gene Kelly, ‘Perché balli?'”. Puro amore della performance, di portarla al pubblico ed esclusivamente sul grande schermo. In Top Gun: Maverick non manca ovviamente questo aspetto. Anzi come detto nel paragrafo precedente, pur di rendere l’esperienza fisica per ogni scena di volo, ha sottoposto l’intero cast a un allenamento per prepararli a salire sui jet. Come “prodautore” ha esteso questo concetto della performance da sé a tutti gli interpreti.
Nel cinema di David Cronenberg la performance ha sempre avuto un ruolo centrale, in particolare per studiarne gli effetti sugli osservatori. Pensiamo ad esempio a Videodrome in cui il centro della fase iniziale è proprio legato agli stimoli di chi guarda, all’influenza che si provoca nello spettatore. Oppure possiamo prendere spunto da Crash, dove le messe in scena degli incidenti organizzate da Vaughan vanno a tutti gli effetti a creare delle live performance.
In Crimes of the Future però Cronenberg fa un ulteriore passo in questa direzione. Nel film il concetto di performance diventa fulcro narrativo, un centro gravitazionale a cui ruotano attorno gli altri temi. Il protagonista Saul, alter-ego di Cronenberg e se vogliamo a sua volta un prodautore, è un artista concettuale specializzato nella body art. Una sorta di Marina Abramovič al maschile che si muove in questa scenografia a tratti espressionista e che vive la sua vita pensando e volendo la prossima performance.
Il rifiuto della modernità
David Cronenberg non è di certo un seguace del Positivismo e men che meno un autore ottimista. La sua costante ricerca di abbattimento del confine tra organico e inorganico e delle conseguenze dell’ingerenza tecnologica sul corpo umano è sempre stata permeata da una forte inquietudine. Non c’è bellezza, non c’è felicità. Piuttosto abbiamo sofferenza, un senso di grottesco smarrimento. Non fa eccezione anche Crimes of the Future, dove prima il bambino dell’incipit e poi Saul si fanno portatori della croce della modernità con tutto il dolore che comporta, salvo forse quel timido sorriso dell’inquadratura finale. Un mondo, quello descritto dall’ultima opera del canadese, in cui il rifiuto tecnologico accarezza anche gli oggetti di scena. Vediamo vecchi televisori e microcamere che filmano in bianco e nero dentro un mondo ormai in demolizione. Anche i macchinari più moderni e “alieni” danno un senso di già visto. Sensazione dovuta al fatto che Cronenberg per crearli pesca direttamente dalla sua filmografia, come a sottolineare un’anzianità là dove tecnicamente non può esistere.
Il rifiuto della modernità permea anche Top Gun: Maverick. Come ovvio, in modo più semplice, più esplicito e molto meno cervellotico ma in un costante crescendo tale da rappresentare, nel finale, il vero climax del film. In principio abbiamo un rifiuto verbale ed esplicitato all’utilizzo dei droni volto a elevare l’esperienza diretta fisica e quindi umana. Successivamente questo rifiuto alla tecnologia viene mutato in un rigetto delle nuove generazioni, con tutto l’allenamento di Maverick ai giovani piloti. Una linea retta e senza alcuna esitazione o segno di difficoltà. Infine abbiamo poi il vero climax già citato: il momento in cui il protagonista diventa l’iconico F-14, in grado di tener testa e di battere i jet di ultima generazione.
Un differente sguardo al passato
Differente è invece il rapporto che hanno i due film con il passato, in particolare con il loro. Entrambi ci dialogano e ci tornano a più riprese ma non ne traggono le stesse conclusioni. Cronenberg lo osserva, ci rivede la sua intera filmografia e decide di riportarla in Crimes of the Future quasi per intero. Si domanda se il suo modo di vedere il mondo è ancora attuale, se ha ancora senso riflettere sul corpo e sulla fusione tra organico e inorganico. Nel farlo però sceglie di non aggiornare, di non aggiungere in termini visivi quasi nulla. Anzi restringe il mondo, limita gli scenari (anche a causa del budget ridotto) e il respiro stesso della vicenda.
Top Gun: Maverick sceglie una strada opposta, anche grazie a una disponibilità economica del tutto differente. Nel riprendere l’originale decide di espanderlo e anzi di migliorarlo a posteriori. Il primo Top Gun aveva dovuto fare di necessità virtù. Avendo a disposizione poche ore di filmati di esercitazioni di jet di fatto il film venne costruito e assemblato in sala di montaggio, sotto l’occhio vigile di Tony Scott e di Jerry Bruckheimer. Top Gun: Maverick assomiglia a un remake inteso in senso videoludico, ovvero il riprendere una struttura già esistente e migliorarla con la consapevolezza ed i mezzi di oggi. Ovvero, per fare un esempio, inserire questa volta gli attori in veri jet su cui sono stati impiantati le migliori camere Imax in circolazione. Questo senza però snaturare l’anima del film che ha uno sguardo nostalgico verso l’originale e in generale nei confronti di un certo modo di fare cinema di cui Scott e Bruckheimer son stati tra i massimi rappresentanti.
In pratica tutta l’artigianalità e il mestiere dell’action anni ’80, aggiornato però con le possibilità offerte dal mondo di oggi e quindi, ironicamente, dalla tecnologia contemporanea.