Con le sue short story sui social ci fa sorridere, spingendoci a riflettere sulla nostra quotidianità. Nei suoi volumi, ci accompagna in viaggi emotivi avvolgenti e mai banali, con un perfetto intreccio di ironia e sensibilità. Difficile leggere una storia di Daniel Cuello e non sentirsi parte di questo suo universo, non rivedere nei sui personaggi pregi, e soprattutto difetti, del nostro presente.
Per farci guidare al meglio in questo ricco affresco umano, abbiamo avuto una guida d’eccezione: Daniel Cuello. Una chiacchierata in cui abbiamo sondato le sue tematiche, il suo modo di rappresentare ciò che ci circonda, passando da Residenza Arcadia a Mercedes, da Le Buone Maniere a Piovono Corvi.
Gabbie e mondi del Cuello-verse

Nel fumetto, la gabbia è lo schema entro cui vengono posizionate le vignette nella pagina. Volendo vedere un’allegoria con quanto Daniel racconta, la gabbia nelle sue storie diventa anche una condizione in cui i suoi personaggi vivono le proprie esistenze.
Nei tuoi lavori, in particolare in Le Buone Maniere, si percepisce la voglia di andare oltre questi confini. Quali son le gabbie che più senti attorno a noi e che vuoi infrangere con la tua arte?
DC: Non so quante gabbie io possa dire di infrangere con i miei personaggi e le mie storie, però credo di poter accendere piccoli faretti su alcune di esse, questo sì. La prima che viene in mente, per forza di cose, è la gabbia che costruiamo intorno alla nostra persona, come individui, come singoli all’interno di una collettività o società. È una gabbia fatta di paura, giudizio, protezione e mille altre parole che potrei elencare. È una gabbia che ci costruiamo con gli anni, perché, comunque la si voglia guardare, la realtà fuori da noi è per definizione diversa, incomprensibile, spesso ostile. La paura del diverso, come in Residenza Arcadia, la paura della libertà, come in Le buone Maniere o dei ricordi che ci giudicano come in Piovono Corvi sono meccanismi di autodifesa che crescono nella culla accanto a noi e che, come collettività, dovremmo imparare a riconoscere, e dargli un nome. È su quelle gabbie, spesso appena percettibili, che mi piace fare un po’ di luce.
Residenza Arcardia è la scintilla vitale di un mondo, un Cuello-verse, in cui trovano spazio diverse vite e penetranti attinenze col nostro quotidiano. Le buone Maniere, Mercedes, Piovono Corvi sono tessere di questo mosaico, definiscono sempre più aspetti di questo modo, con l’ombra immancabile della dittatura del partito, senza nome ma sempre in agguato.
Come nasce questa tua allegoria della nostra quotidianità? Ti è mai capitato di rivedere tue intuizioni prendere vita nel mondo reale?
DC: Ogni tanto, ridendoci su, mi dico che porto sfiga. Da Residenza Arcadia in poi il mondo (quello occidentale, almeno) sembra fare del suo meglio – o peggio – per fare di sé una versione ancora più grottesca e inquietante delle mie storie. All’inizio, anni fa, parlavo di “distopie”, mi ispiravo a eventi realmente accaduti e ad altri che, in qualche modo, erano nell’aria. Oggi, dopo quattro graphic novel non parlo più né di distopia né di ucronia, ma qualcosa di più vicino, troppo, al presente che viviamo. Un sorta di realismo tragicomico. In fondo possiamo davvero dire che censura, propaganda, polarismo, algoritmi, totalitarismi o desertificazione e clima impazzito non siano diventati termini di uso comune nelle cronache di ogni giorno?
La paura di essere liberi, la paura del futuro

“La libertà fa paura. È come mettersi per strada senza indicazioni.” – D. Cuello
Questa tua frase è una bomba per le coscienze, ci costringe a interrogarci su quanto siamo veramente liberi e soprattutto quanto sappiamo vivere una libertà.
Secondo te, cosa ci spaventa nell’essere liberi?
DC: La paura dell’ignoto è una delle principali forma di difesa che abbiamo. Come può quindi non spaventarci la libertà? Lasciare uno status quo per qualcosa che non si conosce fa paura, è inevitabile. Quando sono arrivato in Italia ero bambino, era certamente un’avventura, ma anche una paura concreta (che ancora adesso striscia intorno a me) di un continente nuovo, ricco, classista e razzista (non che l’Argentina non lo fosse, eh, ma laggiù quantomeno ero “argentino tra gli argentini”), tutte cose che mi hanno fatto sentire un masso addosso, all’improvviso. Non ero preparato a tutte le forme di libertà, spesso distorte, che l’Italia mi stava offrendo in quel momento della mia vita. E sto parlando solo di una piccola parentesi della mia vita. Figurati il resto.
Ma la libertà, non aver paura di scegliere, è alla base della costruzione di un futuro. Nelle tue storie, il futuro è una frontiera che sembra sempre troppo lontana.
Secondo te, cosa ci manca per conquistare davvero il nostro futuro? O siamo prigionieri di un eterno presente?
DC: Non lo so se saremo sempre prigionieri di un eterno presente. Avrei bisogno di molte parole per argomentare cosa ne penso. C’è chi dice che il conflitto e la lotta siano un bisogno umano e, come tale, impossibile da eradicare. Quello in cui possiamo sicuramente migliorare è la comunicazione (io sono il primo a sentire il bisogno di comunicare meglio), e non parlo della comunicazione tra popoli, tra istituzioni e cittadini, ma ad un livello molto più basico. Comunicare prima ancora con il nostro io più intimo, con i nostri bisogni, con i nostri sentimenti, con il vicino di casa e lo sconosciuto per strada. E un po’ per volta, forse, saremo in grado di comunicare meglio con chi è lontano anni luce dalla nostra scacchiera quotidiana
Ritrarre il nostro mondo

Che si tratti di volumi o di short sui social, Daniel riesce sempre a creare un’intensità emotiva impeccabile. I suoi personaggi risultano vividi e concreti, complice un perfetto tempismo comico che stempera quando necessario.
Come entri in sintonia con i tuoi personaggi?
DC: Beh, intanto grazie, prendo il complimento e porto a casa. Per me creare un buon personaggio significa diventare quel personaggio, soffrire e ridere come quel personaggio. È una cosa fighissima da una parte e una condanna dall’altra. Vivo tante vite emozionanti: rido di gusto per certe situazioni, piango per altre. Ma in ogni caso ne esco sempre stremato. Questa fatica, quando non la sento, mi suggerisce che non sto dialogando abbastanza con quel personaggio e che devo conoscerlo ancora meglio. In qualche modo, alla fine, è una forma di consapevole dissociazione.