Il 10 febbraio 2020, durante la 92a edizione degli Academy Awards, Parasite si aggiudicava quattro Oscar tra cui quello per Miglior Film diventando il primo titolo in lingua non inglese a riuscirci. Un momento epocale per quanto riguarda la storia del premio, un punto di svolta per la cinematografia internazionale e in particolare per la cultura coreana. Nei paragrafi che seguono cercheremo di analizzare alcuni punti del film, a partire dal suo inserimento all’interno della carriera di Bong Joon-ho fino alla spiegazione del finale di Parasite.
Parasite e la filmografia di Bong Joon-ho
La vittoria di Parasite agli Oscar ha avuto come piacevole conseguenza quella di una maggiore popolarità del suo autore Bong Joon-ho, vincitore nella medesima edizione del premio come Miglior Regista. Anche in Italia nei mesi successivi abbiamo visto una voglia di (ri)scoperta di questo autore. Pensiamo ad esempio all’uscita in sala di Memories of Murder (2003), film che prima del successo agli Oscar del suo autore era stato distribuito in Italia nel 2007, con anni di ritardo e solo in DVD. Proprio grazie a questo lavoro di recupero della filmografia del regista sudcoreano possiamo cercare di trovare i punti in comune che legano le sue opere e che tornano in Parasite.
Partiamo da uno degli argomenti centrali del film del 2019, ovvero la questione legata alle differenze sociali. Quello della disuguaglianza è un tema centrale nella filmografia di Bong Joon-ho, il quale lo ha declinato in modi e maniere differenti in tutte le sue opere. Per fare un paio di esempi: in Memories of Murder la centralità era posta sulle differenze, di opportunità, approcci e ceto sociale, tra gli abitanti della provincia coreana e quelli dei grandi centri urbani; in Snowpiercer la differenza sociale e il conseguente tentativo di scalata diventa il tema fulcro dell’opera che vede i sopravvissuti del genere umano abitare il treno-mondo, a cui ogni vagone corrisponde un determinato ceto con diritti e benefici differenti. In modo simile anche in Parasite il tentativo di ascesa della famiglia protagonista diventa il motore principale degli avvenimenti.
Altro tema ricorrente nel cinema di Bong Joon-ho è quello dell’eccessiva dipendenza della Corea del Sud nei confronti degli Stati Uniti. Una subordinazione che deriva dagli esiti della Guerra di Corea (1950-1953) e dagli equilibri geopolitici formatisi nei decenni successivi. In Parasite la possiamo vedere declinata in ottica culturale, a partire dall’utilizzo dell’inglese (e degli inglesismi) udibili nei dialoghi tra i protagonisti e la famiglia Park. O ancora nei riferimenti fatti alle università statunitensi o alla necessità di svolgere un lavoro legato agli Stati Uniti per poter elevarsi, economicamente e socialmente.
In altri film di Bong Joon-ho avevamo visto il tema venire trattato in maniera differente: in Memories of Murder per poter avere un’analisi del DNA era necessario mandare il campione a un laboratorio americano, con conseguenti ritardi e blocco delle indagini; nel kaiju movie The Host vediamo un intervento diretto delle forze militari statunitensi su suolo sudcoreano, il quale porta più disagi che benefici; in Okja vediamo invece lo sfruttamento di una multinazionale a trazione americana nei confronti del popolo coreano.
Lo scantinato
In tutta la filmografia dell’autore sudcoreano è poi ricorrente la metafora dello scantinato.
Ogni film di Bong Joon-ho vede alcune sequenze ambientate in sotterranei o in generale in piani sotto il livello del suolo, dove l’autore mostra avvenimenti e storture che la società coreana e/o internazionale preferiscono nascondere e fingere di non vedere. In Memories of Murder la sala interrogatori è situata in una sorta di cantina dove la polizia fa violenza sui cittadini; in The Host il mostro porta nelle fogne i suoi pasti; in Snowpiercer il meccanismo manuale fondamentale per permettere al treno di funzionare è situato in un piccolo scompartimento sotto il pavimento, a simboleggiare lo sfruttamento (in particolare dei bambini o dell’innocenza); in Okja nel sotterraneo del mattatoio viene inscenato un vero e proprio stupro.
Il tutto culmina proprio in Parasite, dove la metafora di Bong trova il suo massimo compimento, diventando lo schema, visivo e narrativo, attraverso cui narrare la vicenda. La famiglia protagonista vive in sostanza in uno scantinato mentre per accedere alla villa dei Park occorre percorrere una serie di scale verso l’alto. La stessa dimora, teatro della maggior parte del film, è organizzata secondo una verticalità molto chiara e ha un bunker sotterraneo che diventerà poi punto fondamentale di tutto il finale di Parasite. O ancora pensiamo alla sequenza in cui i coniugi Park dormono sul divano mentre i Kim sotto il tavolo, a mostrarci ancora una volta il dislivello sociale.
Generi diversi
Infine chiudiamo questa sintetica analisi con uno sguardo al linguaggio filmico e all’approccio ai generi di Bong Joon-ho. Con un rapido sguardo alla filmografia dell’autore è facile notare il suo approcciarsi continuamente a generi differenti, pur mantenendo capisaldi come quelli citati e una forte vena ironica in ogni film. Thriller come Memories of Murder e Madre, fantascienza come Snowpiercer e Okja, monster movie come The Host.
Parasite da questo punto di vista segna un punto di arrivo per il regista, un’opera in cui ha cambiato registro, genere e tono più volte. A un iniziale approccio da commedia europea ha seguito un segmento da heist movie, per poi virare nuovamente (e brevemente) verso il thriller e l’horror. Il tutto senza mai perdere il focus narrativo sul tema socio-politico centrale. Una lectio magistralis cinematografica in tutto e per tutto.
La pietra
Parasite ha alcuni elementi al suo interno abbastanza criptici e di non immediata comprensione. Alcuni li abbiamo analizzati nel paragrafo precedente, su due non ci siamo ancora soffermati: la pietra e il finale del film.
La pietra regalata alla famiglia Kim da un amico benestante di Ki-woo è una Suseok. Sono pietre ornamentali tipiche della cultura coreana, generalmente di alto valore. All’interno di Parasite la Suseok ha un significato ambiguo su cui lo stesso Bong Joon-ho tende a giocare per tutta la durata dell’opera. Lo stesso personaggio Ki-woo, non riuscendo a inquadrarla, la definisce metaforica. Ed effettivamente la pietra assume e interpreta la metafora della famiglia Kim dalla sua ascesa fino alla sua caduta. Lo stesso regista ha però ammesso di averla utilizzata per prendere in giro gli spettatori cambiandone più volte il significato, come ad esempio facendola galleggiare durante l’alluvione o affondare nel fiume nel minuti finali. Volendo attenerci alla concretezza la Suseok potrebbe rappresentare il non attaccamento alla realtà della classe agiata. L’amico di Ki-woo infatti regala un oggetto ornamentale di grande valore a una famiglia in gravi difficoltà economiche, tanto che la stessa madre del ragazzo esclama che sarebbe stato meglio ricevere del cibo che un semplice sasso. La pietra diventa poi nel finale anche l’oggetto attraverso cui parte l’escalation della violenza.
Il finale
Veniamo ora al finale del film. Bong Joon-ho durante la sua carriera ha sempre inserito finali ambigui nelle sue opere. Lo sguardo in camera di Memories of Murder, il balletto in Madre, i due sopravvissuti in Snowpiercer, tutti casi in cui non si ha una spiegazione didascalica del singolo momento e del futuro dei personaggi. Come ricorrente nell’estremo oriente non si ha una vera e propria chiusura dell’arco narrativo, come invece accade di solito nella narrazione occidentale. Lo stesso avviene in Parasite.
Al termine della scena madre dove vediamo Ki-taek pugnalare a morte il signor Park e poi darsi alla fuga, abbiamo un breve balzo temporale in avanti. Scopriamo attraverso le parole del giovane Ki-woo, sopravvissuto non senza conseguenze fisiche e legali agli avvenimenti, della morte della sorella Ki-jung e della latitanza del padre. Il ragazzo e la madre sono tornati al loro appartamento e hanno ripreso i lavoretti necessari alla loro sussistenza. Una sera Ki-woo decide di rimanere a osservare la casa dove risiedevano i Park, ora abitata da nuovi inquilini tedeschi, e nota un particolare. Una delle lanterne lampeggia inconfondibilmente secondo i dettami del codice morse. Il ragazzo, forte del suo passato da boy scout, si appunta tutto e si appresta a tradurlo. Scopre quindi che il padre è vivo e che si sta nascondendo nel bunker sotterraneo della villa, proprio come aveva fatto negli anni precedenti il marito della domestica. A questo punto Ki-woo prepara il suo piano (i “piani”, altro tema ricorrente del film). Vediamo una sequenza di tutto questo racconto del ragazzo, il quale prevede di studiare, fare carriera e guadagnare tanto da comprarsi la villa, così da poter finalmente riabbracciare il padre. È qua che Bong gioca con lo spettatore, facendogli credere che tutto ciò sia effettivamente accaduto. Le immagini tornano però al presente, con un movimento di camera discendente che richiama quello dell’apertura, e ci riportano nell’appartamento sotterraneo sul viso di Ki-woo che guarda disincantato brevemente in camera prima dei titoli di coda. Il tutto a significare l’irrealizzabilità del piano e a sottolineare l’immutabilità delle distinzioni nella società coreana (e umana in generale).
Extra: la versione di Parasite in bianco e nero
Chiudiamo questo articolo soffermandoci in breve sulla versione di Parasite uscita in bianco e nero sia in sala che nel cofanetto italiano della Eagle Pictures. Operazione questa diventata sempre più ricorrente nel cinema moderno. Pensiamo ad esempio a quanto fatto con Mad Max: Fury Road, Logan o la Zack Snyder’s Justice League. Per quanto riguarda il film coreano, Bong Joon-ho stesso ha dichiarato di aver pensato inizialmente il film in bianco e nero, idea poi modificata principalmente per richiesta dei produttori. Per quanto ci riguarda vi consigliamo di rivedere il film in questa versione che esalta sia la definizione dei volumi che delle geometrie così importanti per la storia che gli stessi personaggi.