Dopo venticinque anni dalla sua prima uscita nei cinema e dalla sua presentazione al Festival di Cannes, il lungometraggio d’esordio di Sofia Coppola torna nelle sale in versione restaurata 4K da Criterion. Dal 6 maggio sarà infatti possibile (ri)scoprire questo cult degli anni novanta, tratto dall’omonimo romanzo di Jeffrey Eugenides. Per via della sua vasta eco negli ultimi decenni, la vicenda potrebbe risuonare familiare anche a quanti non abbiano effettivamente visto la pellicola: ambientata negli anni Settanta, la storia ripercorre il tragico suicidio di cinque sorelle adolescenti, intrappolate nelle dinamiche disfunzionali di una famiglia oppressiva e di una comunità connivente. Ma come mai, anche a distanza di venticinque anni, la pellicola di Coppola continua ad attrarci in questo mondo orrorifico, che a tratti sfuma nell’onirico? Vediamo insieme tre possibili ragioni del successo intramontabile del Giardino delle vergini suicide.
Il sublime
Concetto riscoperto dai romantici, anche se a ben vedere l’arte gotica ne è pregna, il sublime indica quella sensazione che riesce a tenere insieme orrore e bellezza, paura e fascino. Si tratta di un sentimento soverchiante e paradossale, proprio perché basato su un ossimoro fortissimo, pari solo all’incontro tra Eros e Thanatos. Soprattutto, si tratta di un sentimento universale e imperituro, che appartiene all’animo umano in quanto tale, a prescindere dai momenti storici e dalle geografie.
Di tale sentimento è pregna la narrazione di Coppola, che dora un’estetica pop, surreale e patinata ad una vicenda quanto mai orrorifica, e densa di elementi funesti. L’intera pellicola è permeata da un senso di nostalgia, struggimento e desiderio – il desiderio sessuale dei ragazzi che ripercorrono la loro giovinezza e l’incontro con le cinque sorelle Lisbon, il desiderio malinconico legato ai ricordi del passato e il desiderio di vita delle giovani. D’altra parte, la narrazione fa trasparire tutta l‘angoscia esistenziale delle cinque ragazze, un sentimento sordo e sottile che rimane indecifrabile per i ragazzi che narrano la vicenda. La stessa ambientazione incarna questa dicotomia: i quartieri suburbani residenziali americani, dove la tranquillità e la mondanità regnano sovrani, vengono spesso utilizzati simbolicamente come teatri di scontro tra natura e tecnologia. Scontro che, nel film di Coppola, si declina nella tragica contrapposizione tra innocenza infantile e violenza, frequente trope delle pellicole horror.
Un racconto contemporaneo
Un altro aspetto che nutre il nostro fascino per la pellicola è probabilmente la sua straordinaria attualità, sotto diversi punti di vista.
In primo luogo, viviamo oggi in un momento di rimessa in discussione e decostruzione dei paradigmi dominanti. La recente pioggia di adattamenti, sequel e standalone ha infatti evidenziato non solo una grande nostalgia per il passato – o meglio, per la sensazione di comfort e familiarità connesse a quelle storie – ma anche una volontà di guardarle sotto nuove prospettive, magari rielaborandole in maniera più adatta alle sensibilità presenti. Sofia Coppola ha recentemente dimostrato una grande capacità di decostruire narrazioni consolidate di generazione in generazione – come quella di Elvis, nel suo ultimo Priscilla – e anche Il giardino delle vergini suicide presenta queste intenzioni. Ad essere decostruito qui è il mito dell’adolescenza, la romanticizzazione della giovinezza come di un momento idilliaco nella vita di una persona. Qui, al contrario, il sogno assume piuttosto le fattezze di un incubo, rivelando la sofferenza che può svilupparsi durante questa delicata fase dell’esistenza.
In seconda analisi, sempre di più le nuove generazioni stanno diventando consapevoli della complessità e della natura sistemica dei drammi personali. Il femminismo intersezionale, così come molti movimenti per i diritti umani, stanno infatti da tempo cercando di mettere in luce come specifiche sofferenze e problemi facilmente localizzabili, nascondano in realtà responsabilità condivise da un sistema sempre più fittamente interconnesso e globale. In altre parole, per rispondere alle questioni del nostro tempo, ci stiamo collettivamente rendendo conto della necessità di guardare all’insieme, piuttosto che ai fattori isolati. Questo è anche quello che fa Coppola nella pellicola. La regista, e sceneggiatrice, infatti, non si sofferma ad indagare le cause dei suicidi delle giovani, ma attira piuttosto la nostra attenzione sul contorno, indugiando sull’oppressione genitoriale e sul silenzio del vicinato, complice della generale negazione dell’orrore delle protagoniste.
Tra male e female gaze
Il racconto presenta un evidente e dichiarato male gaze. In prima battuta, infatti, la narrazione è esplicitamente articolata dal punto di vista di un gruppo di ragazzi, anonimi e insignificanti nella narrazione, che forniscono la propria, personale prospettiva, oltretutto filtrata dall’ ingannevole memoria. Le ragazze, quindi, diventano oggetto passivo delle loro osservazioni, nonché oggetto delle loro pulsioni sessuali.
Al contempo, nell’adattamento cinematografico si percepisce ancora meglio come le cinque protagoniste aderiscano all’archetipo della donna angelo, individuato da Laura Mulvey come potente proiezione della volontà di controllo maschile. Pizzi bianchi, carnagioni candide e capelli biondi rimandano evidentemente ad un contesto angelico, innocente e compiacente. Anche il loro suicidio, d’altronde, ricade in un archetipo ampiamente esplorato nella letteratura e nell’arte di prospettiva maschile. Lo stesso Edgar Allan Poe aveva dichiarato che “la morte di una bella donna è, senza dubbio, il tema più poetico del mondo” e basterebbe ripensare all’Ofelia di Amleto e alle varie modelle dei preraffaelliti per vedere come le donne siano spesso state vittime della sublimazione del desiderio maschile.
Eppure, Coppola riesce a problematizzare questo sguardo, lasciando trasparire tutto il disagio di una prospettiva che romanticizza l’orrore. Dalle sequenze emerge un forte senso di disagio, molto simile a quello che proviamo guardando la relazione tra Elvis e Priscilla nella sua ultima opera. Il male gaze è poi qui esplicitato in quanto prospettiva parziale, evitando di scadere nell’universalizzazione dell’esperienza maschile che spesso troviamo nei prodotti audiovisivi del passato – e in molti del presente. Insomma, rimanendo fedele al romanzo, Coppola ha fornito uno spunto per mettere in discussione una precisa mentalità, che forse non siamo troppo abituati ad osservare sotto queste tinte inquietanti e controverse.
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