Mentre Hayao Miyazaki, a dieci anni di distanza da Si alza il vento, torna nei cinema giapponesi con un nuovo lungometraggio, nelle nostre sale continua la rassegna “Un mondo di sogni animati”, dedicata a cinque dei film più rappresentativi del maestro dell’animazione nipponica. Tra questi non poteva mancare Il mio vicino Totoro, ovvero il titolo senza il quale lo Studio Ghibli e Miyazaki, forse, non sarebbero stati gli stessi.
Questo perché il personaggio nato nel 1988 dalla matita del creatore di Nausicaä della Valle del vento non è solo il film con protagonista quello che sarà il marchio e la mascotte ufficiale dello Studio (un po’ come Topolino per la Disney) ma anche un vero e proprio manifesto di poetica, tanto del suo autore quanto della casa di produzione da lui co-fondata. Il biglietto da visita ideale, insomma, per entrare a piccoli passi in un mondo destinato a diventare, di lì a poco, parte integrante del nostro immaginario.
Un gioco da ragazzi
Arrivato per la prima volta in Italia solo nel 2009, a ventun anni di distanza dall’uscita nelle sale giapponesi, la storia di Totoro è in realtà ben più lunga e affonda le sue radici nel passato e nel senso stesso di meraviglia del suo autore. Al suo quarto film è come se Miyazaki avesse infatti condensato il proprio vissuto e la propria idea di fantastico in una storia immediata ed essenziale come mai prima, dove la trama e l’intreccio contano molto meno delle situazioni e dei sentimenti che lì hanno luogo. Un approccio certamente più diretto rispetto ai film precedenti, ma in cui il mondo poetico del regista e animatore è più presente che mai, nascosto dietro all’immediatezza di una storia vagamente autobiografica su due sorelle trasferitesi in campagna col padre per stare più vicine alla madre malata. Non un semplice pretesto, questo, ma l’essenza di un mondo visto attraverso gli occhi di un bambino, lo sguardo di (e su) un’infanzia ritrovata capace di infondere magia alle cose più semplici e quotidiane.
È attraverso questo sguardo unico e peculiare che prendono così forma i consueti temi miyazakiani, dal rapporto tra uomo e natura alla nostalgia per un passato più rispettoso di essa e del prossimo, da un animismo shintoista che ammanta ogni cosa alla coesistenza tra quotidiano e fantastico, fino alla rivisitazione dei classici (Alice nel paese delle meraviglie) e all’attenzione per un’infanzia in grado di cogliere, a modo suo, il dramma della vita adulta.
È proprio questa capacità di stare sempre, magicamente in bilico tra due mondi, il vero pregio de Il mio vicino Totoro, il cuore pulsante da cui parte tutto il suo mondo fantastico, a cominciare da un’animazione immaginifica sempre a metà strada tra quotidianità e mito, poesia delle piccole cose e favola per bambini. Un mondo di archetipi e di rimandi infiniti, semplicissimo eppure mai banale o risaputo, in cui i giochi di Mei e Satsuki si accompagnano, coesistendo, alle buffe creature che popolano il bosco davanti casa, tra pelosi guardiani della foresta, bizzarri gatti-bus e spiritelli della polvere.
Un posto nel nostro immaginario
Ma Il mio vicino Totoro deve il suo successo anche ai suoi aspetti tecnici. A fianco di un’animazione spesso prodigiosa a fare il resto ci pensano infatti da una parte gli sfondi evocativi eppure precisissimi del responsabile artistico Kazuo Oga – da qui in poi una costante per molte altre produzioni dello Studio – dall’altra una colonna sonora, composta da Joe Hisaishi, indimenticabile come le canzoni dei titoli di testa e di coda (di cui una, Tonari no Totoro, composta dallo stesso Miyazaki).
Inevitabile, allora, che un film del genere entrasse prepotentemente nell’immaginario di mezzo mondo. Da una parte, banalmente, grazie alla capacità del suo protagonista di farsi oggetto ideale per un merchandising potenzialmente inesauribile, dall’altra influenzando la poetica stessa dello Studio, sia in termini estetici che tematici (il rispetto per la natura in primis). Da qui in poi non si conteranno più, infatti, i rimandi e i riferimenti, espliciti (il ritorno dei nerini del buio ne La città incantata) o impliciti (cosa sono i guardiani della foresta di Princess Mononoke se non versioni più adulte di Totoro), al film, così come gli omaggi interni o esterni (Toy Story 3) a quel mondo.
Quella di Totoro sarà un’eredità con cui dover inevitabilmente fare i conti (sarebbe esistito, almeno come lo conosciamo, La città incantata senza questo film?). Un’opera diventata, col senno di poi, una dichiarazione di intenti, il biglietto da visita per un’intera poetica e, allo stesso tempo, il libretto di istruzioni su come guardare un mondo completamente nuovo per la prima volta.