La scorsa estate è tornato nelle sale Almodovar con cinque grandi successi della sua cinematografia. D’altronde, egli rimane senza ombra di dubbio il regista spagnolo contemporaneo più conosciuto e amato in tutto il mondo. Ma la Spagna è stata in grado di formare registi altrettanto piccanti e grotteschi fin dal secolo scorso, che da noi vengono spesso nascosti sotto la valanga di produzioni statunitensi, finendo per rimanere negletti anche per chi si interessi di storia del cinema. Dunque eccoci pronti a rimediare: per tutti i curiosi e i più maliziosi, vi proponiamo oggi i 42 migliori film spagnoli della storia, prima, durante e dopo Almodovar.
1. Nazarìn (1959)
Insignito del Premio Internazionale al Festival di Cannes nel 1959, Nazarìn è probabilmente uno dei film più riconosciuti di Buñuel, con grande dispiacere del regista stesso, che tutto desiderava fuorchè diventare “commerciale” o di successo. Ribolle infatti tanto nella sua persona quanto nella sua opera quella forza sovversiva e provocatoria che lo portò prima a sperimentare con lavori surrealisti, poi ad abbracciare posizioni comuniste e antifranchiste dalla guerra civile in avanti, con pesanti conseguenze sulla sua carriera. Non stupirà quindi che la sua cinematografia sia caratterizzata da violenti attacchi contro le istituzioni politiche e religiose, che vengono denunciate per la loro ipocrisia, per il loro dogmatismo e l’infimo tentativo di sopprimere le libertà del popolo.
Il film in questione non fa eccezione: Padre Nazario (Francisco Rabal) è un prete spagnolo che, nel Messico prerivoluzionario, vive seguendo concretamente i precetti evangelici. Tuttavia, la sua fede viene messa a dura prova dalle numerose sfide alle quali la vita lo sottopone e sarà necessario per lui aggrapparsi disperatamente alla propria forza d’animo per non vacillare nelle sue posizioni di devoto servitore del Signore.
Talvolta interpretata come una lettura della Passione di Cristo nei panni di un umile prete, la pellicola è incredibilmente icastica per la capacità di Buñuel di dosare provocazione, blasfemia, simbolismo e paradosso senza mai esagerare. Ne emerge il ritratto brutale di una società ormai irrimediabilmente degradata e viziosa, dove un’adesione radicale ai principi cattolici diventa surreale, esasperata a tal punto da sfociare nella parodia di se stessa. Un film che decisamente libera tutta la carica esplosiva del suo provocatorio regista.
2. Viridiana (1961)
Tornato in Spagna su invito dello stesso caudillo Franco, Buñuel realizza questa pellicola che, oltre a valergli la Palma d’oro a Cannes, diventa il film più censurato nella storia della sua cinematografia. La vicenda abbonda infatti di violenti attacchi a tutto ciò su cui si fondava il regime franchista: una giovane ragazza in procinto di prendere i voti, dopo aver subito gli abusi dello zio, decide di dedicarsi ai più bisognosi organizzando una grande cena a cui sono invitati disabili, senza tetto e reietti della nostra società. Inutile dire che il banchetto, parodia evidente dell’Ultima cena, si risolve in un completo fallimento – o meglio – in un tripudio di oscenità messe in atto dagli invitati sotto lo sguardo accondiscendente della ragazza, inerme davanti a tante blasfemie. Abbondano le immagini sessuali, gli sbeffeggi ai simboli sacri e ad un certo punto si arriva ad accennare alla necrofilia.
Viridiana, in definitiva, si conferma come uno dei film più scandalosi del regista, tanto da essere bloccato fino alla morte di Franco e da suscitare una vera e propria burrasca internazionale, infiammando le polemiche delle istituzioni cattoliche di tutta Europa. E secondo noi non ha perso neanche un po’ del suo mordente…
3. Il fascino discreto della borghesia (1972)
Dopo oltre dieci anni dall’uscita di Viridiana, Buñuel firma questa pellicola considerata spesso un perfetto sunto della sua poetica. Sarebbe inutile descrivere la trama. Da maestro del cinema surrealista, infatti, Buñuel mette in scena una serie di eventi paradossali, impostando un’ altrettanto assurda premessa drammatica: una bizzarra compagnia di sei amici continua a cercare di darsi appuntamento per un pranzo, ma irrimediabilmente ad ogni occasione una serie di eventi assurdi impedisce loro di portare a termine il pasto. Tale struttura narrativa permette di concatenare una serie di episodi semi-indipendenti l’uno dall’altro, in un crescendo di scenette caustiche e grottesche, dichiaratamente critiche verso gli atteggiamenti tanto parassitari quanto ipocriti della borghesia moderna. Per questo motivo ritroviamo qui la vera essenza del regista: satira sociale violenta, graffiante e dai toni decisamente onirici, in una pellicola dove il ritmo narrativo vede un climax di paradossi fino allo scioglimento finale. In effetti, l’opera, insignita dell’Oscar come migliore film straniero, sembra incarnare perfettamente il pensiero di Buñuel circa il suo lavoro nel cinema:
“Contro le disuguaglianze sociali, lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, l’influenza abbruttente della religione, il militarismo rozzo e colonialista, i surrealisti considerarono a lungo lo scandalo come rivelatore onnipotente, capace di mettere a nudo le molle segrete e odiose del sistema da abbattere” – Luis Buñuel.
4. L’age d’or (1930)
Rimaniamo con Buñuel, ritornando però agli esordi della sua carriera. Lo troviamo negli anni ’30, profondamente affascinato dalle avanguardie europee – in particolare dal surrealismo- , mentre compie i primi esperimenti cinematografici insieme al collega Dalì. Il sodalizio darà vita a due dei film considerati veri e propri manifesti del surrealismo cinematografico: Un chien andalu (1929) e L’age d’or. Di nuovo, non bisogna aspettarsi una trama ben definita, quanto piuttosto un susseguirsi di episodi paradossali, orchestrati con grande abilità per comporre un quadro di attacco e critica contro autoritarismo, clericalismo e repressione sessuale. Ben prima della guerra civile, dunque, Buñuel sfrutta le istanze surrealiste per liberare la propria carica sovversiva e antisistemica in maniera creativa.
Il film, non stupirà, è stato censurato per oltre cinquant’anni ma è oggi facilmente reperibile: sessanta minuti per comprendere l’urgenza del regista di rivendicare le libertà personali, in anni nei quali autoritarismi e regimi totalitari iniziavano spaventosamente a prendere il sopravvento in Europa.
5. La caccia (1966)
Carlos Saura è forse uno dei registi spagnoli più negletti nel nostro Paese, che fatta eccezione per qualche nome emerso negli ultimi anni si è disinteressata alla cinematografia iberica dopo Buñuel. Ebbene, occorre sicuramente riscoprirlo con uno dei film più emblematici della sua produzione.
Il film inizia prevedibilmente con una battuta di caccia, alla quale partecipano tre amici, ex veterani falangisti, e un giovane ragazzo. La situazione però rapidamente degenera e quella che era una caccia alla lepre si conclude in un vero e proprio massacro. Attingendo dal Neorealismo italiano, che influenzò profondamente il regista nei suoi primi progetti, e commistionando elementi surreali e grotteschi di ispirazione buñueliana, Saura riesce a tratteggiare una feroce denuncia contro il clima di violenza e la volontà di prevaricazione respirati durante la guerra civile e la dittatura franchista. L’impulso di morte che inizialmente i protagonisti – si noti, tutti borghesi – dirigono contro le lepri innocenti, presto si ritorce loro contro in una furia assassina, metafora della passata Storia nazionale.
Si tratta forse della pellicola più conosciuta dell’autore, nonché di quella più premiata a livello internazionale, arrivando a vincere il Lene d’Oro al Festival di Berlino. Senza dubbio da riscoprire.
6. Benvenuto Mr. Marshall! (1952)
Rimaniamo nel Secondo dopoguerra con questa commedia neorealista spagnola. Mentre in Italia si affermano De Sica, Rossellini, De Santis e Visconti, con il loro neorealismo dall’impronta prevalentemente drammatica, in Spagna Berlanga ci delizia con un realismo grottesco e caricaturale, memore della tradizione tragicomica e sferzante della letteratura nazionale.
Benvenuto Mr, Marshall! è un film di aperta denuncia contro le manovre economiche previste dal piano Marshall e l’ipocrisia dietro l’interessamento degli Stati Uniti per l’Europa. Ci troviamo infatti in un paesino della provincia spagnola, dove viene annunciato l’arrivo di funzionari americani incaricati di programmare un piano di aiuti e finanziamenti. Prevedibilmente, la cittadina è in fermento e i preparativi fremono, se non che al passaggio dei forestieri la gente avrà una brutta sorpresa…
Con questa pellicola Berlanga è riuscito a bucare la bolla alla quale la cinematografia spagnola era confinata ormai da troppo tempo: il film in tempi non sospetti riesce ad avere un’eco internazionale, e fa parlare di sé sui giornali di tutti i Paesi europei, dove viene spesso elogiato come esempio cinema spagnolo fresco, originale e di alta qualità. Curiosi?
7. El sur (1983)
Abbiamo già visto come il cinema spagnolo riesca brillantemente a riflettere sul drammatico passato nazionale e collettivo partendo da vicende individuali. Con El sur, Victor Erice ce ne offre un’ulteriore dimostrazione. La vicenda infatti prende le mosse dalla vita di un uomo, Augustín (Omero Antonutti), scienziato e rabdomante, e dal suo rapporto con la figlia Estrella (Sonsoles Aranguren). Quest’ultima, crescendo, inizia a scoprire l’intimità del padre, e a poco a poco comincia a nascere in lei il sospetto che Augustín celi un segreto nel suo passato.
Ambientato nel nord del Paese, il film ricostruisce l’esistenza lacerata di un uomo dal punto di vista di una figlia – in una dinamica che ricorda lontanamente il recente Aftersun – ma ripercorre anche il clima denso di sangue e violenza della guerra civile e degli anni del franchismo. Con una regia delicata e dimessa, Erice tocca i nodi dell’infanzia del protagonista, sintetizzando in maniera efficace i momenti più intensi.
In definitiva, lo spettatore che si aspetta una regia almodovariana rimarrà sicuramente deluso: Erice non risulta altrettanto pop e postmoderno, e il suo stile manca del grottesco che abbiamo evidenziato nelle pellicole precedenti. Tuttavia, i temi affrontati sono molto simili, e forse, nella sua umiltà registica e nella volontà di evitare esasperazioni, le passioni umane possono essere affrontate in maniera ancora più sincera…
8. La colmena (1982)
Rimaniamo negli anni ’80, decennio di liberazione per i registi spagnoli che, dopo lo smantellamento del regime franchista, sperimentano una libertà creativa tutta nuova. Tra gli autori più riconosciuti del periodo, sicuramente non potevamo non citare Camus e il suo La colmena.
Tratto da un romanzo del premio Nobel Camilo José Cela, il film tratteggia il clima del dopoguerra spagnolo attraverso un coro di voci: un alveare (traduzione letterale del titolo) di personaggi ronza intorno al caffè “La Delicia” di Madrid, dove il romanzo e la pellicola sono interamente ambientati. Ognuno offre un piccolo scorcio di vita personale che, ricomposto in un unico quadro complessivo, restituisce l’atmosfera degli anni ’40, dove a slanci d’indignazione e desiderio di rivalsa si alternano amari momenti di rassegnazione per la situazione presente.
Sicuramente non si tratta del film più riuscito di Camus dal punto di vista registico, ma la potenza della sceneggiatura, tratta dalla penna di Josè Cela, riesce brillantemente a colmare eventuali mancanze per regalare un film che conserva decisamente la potenza originaria.
9. Los chicos (1959)
Dopo la breve parentesi nel periodo postfranchista ritorniamo agli anni ’50 e ritorniamo su Prime Video con la pellicola più amara di Ferreri, sceneggiata da Leonardo Martín.
Di nuovo, i quattro ragazzi protagonisti e le loro vicende personali incarnano in realtà i sentimenti vissuti da un’intera generazione di giovani, spersi, demotivati e sconfitti durante gli anni della guerra civile e del franchismo. In effetti, il senso di inadeguatezza che avvertono i ragazzi è stato più volte messo in scena durante questi anni, quasi a confermare che la rappresentazione di Ferreri è estremamente fedele alle condizioni reali degli Spagnoli del tempo.
Si sente tuttavia l’assenza dei guizzi stilistici, del grottesco e della carica provocatoria di Ferreri, che ha sicuramente brillato con maggiore vigore in El pisito (1958) e El cochecito (1960), con i quali Los Chicos forma un trittico.
10. El pisito (1958)
Ferreri esordisce con questa commedia nera che già presenta tutti i caratteri fondamentali della sua cinematografia: vicende di vita quotidiana nella Spagna del Secondo dopoguerra prendono un risvolto decisamente umoristico e grottesco, suscitando un riso amaro nello spettatore che non può rimanere indifferente davanti al palese intento di denuncia del regista.
In questo caso, una giovane coppia di fidanzati intende sposarsi ma dal momento che non possiede denaro sufficiente a comprare un appartamento, le nozze continuano ad essere rimandate. Alla fine, i due stabiliscono un piano: il ragazzo sposerà un’anziana signora, in attesa che giunga una lauta eredità dopo la sua morte.
Ferreri gioca con i ruoli di genere portandoli all’esasperazione, con i tabù sociali sbeffeggiandoli in alcune scene iconiche del film, e con il sottilissimo confine tra commedia e tragedia nella vita di tutti i giorni. Emerge, come dagli altri suoi film più noti, un ritratto sociale sui generis, che nella sua assurdità finisce paradossalmente per sembrarci vivido e realistico. Probabilmente non siamo gli unici ad rimanere tanto affascinati dalla pellicola, dal momento che ricevette due premi al Locarno Film Festival nel 1958…
11. El cochecito (1960)
Con El cochecito si chiude la trilogia di esordio di Ferreri, ormai trapiantato in Spagna.
Immaginiamo basti una brevissima sinossi per dimostrare come questa pellicola sia del tutto fedele all’icastico stile del suo regista: Don Anselmo (Josè Isbert) è un vedovo che decide di comprare una carrozzella a motore, intestardendosi nei suoi intenti a tal punto da innescare una tragedia.
Ancora una volta, Ferreri attinge dal Neorealismo che si stava affermando nei paesi limitrofi per declinarlo in modo tutto spagnolo, intersecandolo alla tradizione teatrale iberica dell’esperpento. Da un problema sociale effettivo – le condizioni di vita degli anziani disabili – viene ricavato un racconto comico, esasperato nei suoi tratti più satirici. Abbandoniamo quindi la malinconia e il sentimentalismo del Neorealismo nostrano per abbracciare la ferocia e il divertimento del cinema di Ferreri, che ha effettivamente segnato una tendenza ad oggi dominante nel cinema spagnolo: Almodovar stesso ha più volte ammesso di essere incredibilmente debitore al genio di questo regista.
12. Le streghe son tornate (2013)
Alex de la Iglesia è forse insieme ad Almodovar uno dei registi contemporanei che, pur realizzando pellicole decisamente “spagnole” nella messa in scena e nei temi affrontati, ha avuto maggior successo internazionale. Nella sua opera ritroviamo infatti al massimo grado la potenza dell’esperpento, la carica sovversiva del grottesco, della risata amara che permette di esorcizzare problematiche sociali di un certo spessore, insieme alla chiara volontà di parlare del suo Paese e della sua gente.
Le streghe son tornate è liberamente ispirato alla vicenda delle streghe di Zagarramundi, che si concluse con la condanna al rogo di 6 donne accusate di stregoneria nel 1610. Nel film, la vicenda prende avvio da una rapina: Josè (Hugo Silva), divorziato e con gravi difficoltà economiche, decide di assaltare un negozio di compravendita d’oro, coinvolgendo il figlioletto Sergio. Durante la fuga i due sequestrano un taxi insieme ad un complice, e con il tassista alla guida cercando di espatriare verso la Francia. Si imbattono tuttavia nel paese basco di Zagarramundi, abitato da una comunità di streghe…
Si tratta chiaramente di un pretesto comico per mettere in scena episodi paradossali, che il regista spinge davvero al limite del credibile, in un’esagerazione iperbolica deliziosamente propria del suo stile. Tematiche care alla lotta femminista vengono qui esasperate fino al ridicolo: le donne sono tutte streghe oppressive e manipolatrici. Tuttavia, la ridicolizzazione avviene anche all’inverso, nei confronti di uomini evidentemente vili, piagnoni e incapaci. Si gioca insomma con gli stereotipi di genere, con l’orrore, il sangue e gli umori corporei, il cibo e i problemi sociali. Si tratta di un vero e proprio carnevale, con la sua potenza tanto sovversiva quanto rigenerante e catartica. Anche questo, disponibile su Prime Video.
13. La comunità (2000)
Rimaniamo su Prime Video e rimaniamo con Alex de la Iglesia per una delle commedie nere più riuscite del regista. A Madrid, Julia (Carmen Maura) è una donna di mezza età che lavora come agente immobiliare e un giorno si ritrova a vendere un appartamento di lusso dotato di tutti i comfort. In attesa di trovare inquilini interessati a comprarla, si stabilisce lei stessa nella casa, cercando di passare il più possibile inosservata. La situazione sembra filare liscia fino a quando viene scoperto il cadavere decomposto del vicino di sopra, morto ormai da qualche settimana: con il cadavere infatti Julia trova un vero e proprio tesoro, 6 miliardi vinti al totocalcio, dei quali però l’intero condominio è a conoscenza. Prevedibilmente, da questo momento si scatena una vera e propria guerra tra condomini, talvolta portata avanti con inganni e sottigliezze, talvolta con atti di efferata violenza.
De la Iglesia dirige magistralmente il ritmo del film alternando momenti di tensione, orrore e commedia che costruiscono un climax davvero efficace, in grado di incollare lo spettatore alla poltrona. Ogni personaggio viene interpretato e diretto con estrema precisione, così da essere ridotto a macchietta grottesca di una tipologia umana. Si tratta a tutti gli effetti di una Comedie humaine balzachiana in versione condominiale, dove tuttavia gli appetiti e le brutture dell’animo umano vengono denunciati con maggiore violenza, ricorrendo ad una satira spietata. Senza dubbio una chicca da recuperare, che non stupisce abbia fatto vincere a Carmen Maura il premio Goya come attrice protagonista.
14. Perfectos desconocidos (2018)
Il regista de La Comunità certo non avrebbe potuto rimanere indifferente alla nostra “commedia all’italiana”, soprattutto quando questa si tinge di tinte dolceamare. Ecco dunque la sua riproposizione del nostrano Perfetti sconosciuti, film del 2016 che immagina cosa potrebbe succedere se, ad una tranquilla cena tra amici, si decidesse che ciascuno dovrà leggere ad alta voce tutti i messaggi che arrivano sul proprio cellulare. Un esperimento apparentemente innocente, che finirà tuttavia per portare a galla segreti capaci di minare le fondamenta di relazioni decennali.
Dopo un ampio successo di pubblico al botteghino italiano, la pellicola è diventata modello per numerosi remake in tutto il mondo, tra i quali lo spagnolo Perfectos Desconocidos. Eppure De la Iglesia stravolge il registro, virando dal drammatico al farsesco, con i forti toni surreali e bizzarri che caratterizzano le sue produzioni. Alla cinica critica contro la tecnologia e l’ipocrisia della nostra società, De la Iglesia oppone un atteggiamento satirico, esasperato – ed esasperante – che alleggerisce notevolmente i toni rispetto al suo modello di riferimento, stimolando una riflessione critica attraverso il riso piuttosto che il dramma. Decisamente in linea con i suoi precedenti.
15. Crimen perfecto (2004)
Disponibile gratuitamente su Chili, questa pellicola di Alex de la Iglesia è sicuramente tra le più apprezzate dal pubblico internazionale, oltre ad essere stata candidata a numerosi festival per i premi alla regia e al miglior film. Sebbene questa colta non si tratti di un remake, ritorna il riferimento ad altri cineasti: Crimen Perfecto sembra infatti ispirarsi a Il delitto perfetto (1954) di Hitchcock nel tentativo di mostrare la nefasta parabola di coloro che vivono schiavi dei dettami della società contemporanea, la quale fissa obiettivi materialistici e spesso inarrivabili causando un generale spaesamento davanti al vero senso della nostra esistenza.
In perfetto stile De la Iglesia, queste tematiche non vengono affrontate in maniera pesante o drammatica, ma si preferisce virare sull’ironia, il sarcasmo e la leggerezza, solleticando provocatoriamente la coscienza critica dello spettatore. Rafael Gonzales (Guillermo Toledo) è un commesso donnaiolo arrivista e privo di scrupoli morali, impiegato in un negozio di abbigliamento femminile madrileno. Quando la promozione alla quale tanto ambiva viene assegnata ad un collega invece che a lui, Rafael finisce accidentalmente per ucciderlo, ottenendo infine il ruolo al quale aspirava. Il suo operato, tuttavia, non è passato inosservato agli occhi di Lourdes (Monica Cervera), collega poco attraente e decisamente scontrosa, che imbastisce un ricatto: se non vuole che la verità venga a galla, Rafael dovrà sposarla e soddisfare ogni suo desiderio…
Commedia ideale per una serata all’insegna del grottesco, del politicamente scorretto e dell’acidità pungente, in pieno stile spagnolo, perchè con questa pellicola de la Iglesia riesce a comporre un mix davvero esplosivo. All’interno si condensano Berlanga, Almodovar e il surrealismo di Buñuel, per dipingere un sarcastico ritratto della pochezza morale che contraddistingue la nostra società. Se avete già assaggiato lo stile di de la Iglesia non potete perdervi questa pellicola.
16. Perdita Durango (1997)
Con Perdita Durango Alex de la Iglesia conclude una trilogia action che comprende i precedenti Azione Mutante e El Dia de la Bestia. Il capitolo finale è però sicuramente il meglio riuscito, tanto da riassumere nella formula perfetta tutti i tratti caratteristici dei primi due progetti.
Perdita (Rosie Perez) è una donna indipendente e solitaria, sprezzante del pericolo e abituata ad una vita di espedienti. Quando al confine tra USA e Messico incontra Romeo (Javier Bardem), rapinatore di banche e santero, tra i due scoppia la scintilla. Così, la giovene decide di seguire Romeo nelle propri traffici illeciti e nelle attività di stregoneria, che porteranno i due a rapire una coppia di fidanzati per un sacrificio umano propiziatorio.
Un film dai toni decisamente eccessivi, spesso pulp, capace di attingere tanto dagli action movie più estremi quanto ad alcune convenzioni del western. De la Iglesia si allontana quindi dalla commedia, senza rinunciare tuttavia a una narrazione strabordante e blasfema, qui interpretata da una coppia Bardem – Perez che vi terrà letteralmente incollati alla sedia. Anche questa pellicola è disponibile su Prime Video.
17. Amantes (1991)
Nato come progetto per una serie cinematografica, Amantes, di Vicente Aranda, è poi stato convertito in un pluripremiato lungometraggio.
La pellicola è ispirata ad eventi realmente accaduti nella Madrid degli anni ’50, dove Paco (Jorge Sanz), un giovane soldato appena congedato dall’esercito, ha deciso di passare il Natale con la propria fidanzata Trini (Maribel Verdù). Quest’ultima lavora come domestica presso un ufficiale, conducendo una vita quanto più morigerata per mettere da parte il denaro sufficiente a sposare Paco: il giovane, da parte sua, decide di contribuire trovando lavoro presso un fornaio e stabilendosi temporaneamente in una camera in affitto. Tuttavia la padrona dell’appartamento, Luisa (Victoria Abril), lo trascinerà in un vortice di passione erotica, coinvolgendolo nei propri affari illeciti a tal punto da spingerlo a compiere un atto fatale. Come prevedibile, la vicenda si conclude in tragedia.
Sicuramente solido nella sua struttura, il film potrebbe risultare eccessivamente tradizionalista per la sensibilità contemporanea. Effettivamente, i personaggi ricalcano tipologie umane abbastanza stereotipate, così che se non fosse stato per un’interpretazione davvero magistrale dei tre protagonisti – tra i quali la Abril spicca senza dubbio – il risultato sarebbe stato decisamente modesto. In effetti, le dinamiche del triangolo assumono spessore grazie alla micromimica degli attori, che riescono bene a rendere le sfaccettature dei personaggi e i conflitti interni a ciascuno di loro. Per chi volesse gustarsi questo dramma tinto di passioni letali, sarà sufficiente cercare nel catalogo di Prime Video!
18. Ballata dell’odio e dell’amore (2010)
Ritorniamo su De la Iglesia con la pellicola che gli ha permesso di conquistare il Leone d’Argento al Festival di Venezia del 2010. Si tratta effettivamente di una pellicola che condensa con grande efficacia i tratti più caratteristici del cinema spagnolo, lasciandosi pervadere anche da suggestioni nostrane – qualcuno potrebbe cogliere dei riferimenti al cinema di Fellini?
Ambientata durante la guerra civile spagnola e i primi anni del franchismo, la vicenda vede come protagonista Javier (Carlos Areces), pagliaccio triste in un circo dove deve dividere la scena con un compagno arrogante e supponente, Sergio (Antonio de la Torre). I rapporti tra i due diventano ancora più aspri quando nasce la competizione per l’amore di un’acrobata del circo, Natalia (Carolina Bang).
Una storia d’amore e d’odio, dunque, non soltanto interna al circo: sullo sfondo della narrazione principale si snodano le vite degli spagnoli sotto la guerra e la dittatura, pregne di odio, violenza, desideri di vendetta e distruzione reciproca. La scelta di focalizzare la narrazione su un clown è decisamente vincente, trasformandolo in un emblema del paradossale contrasto tra l’apparente entusiasmo millantato dai media statali e la miseria vissuta dalla gente in carne ed ossa. Il circo diventa infatti metafora di una società costretta a ballare, ad esporsi ad un pubblico internazionale in una ballata macabra e triste, dove anche l’amore viene inquinato dall’egoismo, senza mai abbandonare una maschera di gioia e divertimento.
19. Nameless (1999)
Esordio alla regia di Jaime Balaguerò, Nameless si colloca di diritto in quel filone di cinematografia iberica che cerca di coniugare horror, thriller e narrazione intimista.
La vicenda, di per sè, utilizza numerosi topoi dell’horror: una bambina di sei anni viene ritrovata morta in circostanze misteriose, completamente sfigurata dall’acido. Dopo cinque anni sua madre, che ancora non ha completamente superato il trauma, riceve una chiamata da una persona che afferma di essere sua figlia, creduta morta per un errore. Insieme ad un ex poliziotto e un giornalista la donna cerca di scoprire cosa sia effettivamente successo sei anni prima, e finisce per imbattersi in una misteriosa setta che sacrifica la vita dei bambini.
Gli amanti dell’horror ritroveranno qui tanti elementi ormai emblematici, quasi archetipici, del genere: la chiamata enigmatica che accende la narrazione, la cieca violenza sugli innocenti, il contatto tra il mondo dei vivi e l’aldilà… Balaguerò effettivamente innova poco in tal senso, ma riesce a declinare tutti questi elementi in chiave profondamente intimista, coinvolgendo lo spettatore in una narrazione capace di costruire a poco a poco una vera e propria angoscia. Sicuramente film ancora acerbo per un regista che dopo qualche anno avrebbe firmato REC guadagnando fama mondiale, eppure con il grande merito di aver posto le basi per la ricerca creativa personale di Balaguerò… Disponibile su Prime Video.
19. Fragile – A ghost story (2005)
Di nuovo su Prime Video, di nuovo per la regia di Balaguerò, di nuovo un horror, questa volta però dichiaratamente incentrato sulla figura di un fantasma.
Siamo in Inghilterra, dove l’ospedale psichiatrico di Mercy Falls sta per chiudere definitvamente. Otto bambini tuttavia ritardano il trasferimento, e tra questi Maggie, orfana ossessionata da Charlotte, il fantasma di un’altra bambina che infesta il secondo piano dell’ospedale. Affezionatasi alla piccola, l’infermiera Amy (Calista Flockhart) comincia ad indagare sulla possibile presenza del fantasma, riportando alla luce macabri eventi sepolti da anni tra le mura dell’ospedale.
Il cast molto solido riesce a compensare alcune lacune della sceneggiatura, che di sicuro non brilla per originalità, ma che rimane capace di regalare momenti di vera tensione nel corso dei novanta minuti. Altri pregi da sottolineare a fronte delle numerose e fondate critiche contro la prevedibilità di alcune sequenze sono l’assenza di scene splatter, così come l’ottima gestione sia della colonna sonora – che contribuisce non poco a generare un’autentica inquietudine – sia del ritmo narrativo, che parte lento per incalzare senza momenti di crollo della tensione. Consigliato, dopo aver recuperato i precedenti del regista!
20. Darkness (2002)
Dopo Nameless, Jaume Balagueró firma questo nuovo horror che vira verso l’esoterismo, decisamente meglio riuscito del successivo Fragile.
La vicenda presenta tutti gli elementi convenzionali del genere: una casa isolata nella campagna spagnola, una famiglia con una figlia tormentata dai problemi dell’adolescenza e un figlio, al contrario, decisamente taciturno. Non passa molto tempo che nella casa cominciano a succedere fatti inquietanti, e tra sparizioni misteriose e influenze maligne sul padre e il fratellino, l’adolescente Regina (Anna Paquin) si troverà a fare i conti con una haunted house in piena regola.
Il film conferma la poetica che il regista aveva impostato con il suo precedente Nameless, associando il Male alla solitudine umana e inserendolo in un insospettabile contesto medio borghese. L’inquietudine, dunque, nasce tanto dall’utilizzo delle convenzioni dell’horror, quando dalla natura profondamente umana della sofferenza dei personaggi, che riescono a stimolare una riflessione più articolata rispetto al successivo Fragile, alludendo alle contraddizioni morali dei singoli individui, alla facilità con cui cadiamo nell’ipocrisia e ai sottili meccanismi di manipolazione esercitati dagli organi di controllo e potere. Se siete disposti a calarvi nell’orrore delle società umane, fate un salto su Prime Video per questa pellicola!
21. Apri gli occhi (1997)
Rimaniamo in un contesto thriller, abbandonando tuttavia le tinte horror di Balaguerò, per scoprire questa chicca di Prime Video, diretta dal celebre Alessandro Amenabar e presentata al Festival di Venezia.
La vicenda suonerà familiare a quanti hanno visto il Vanilla Sky di Penelope Cruz e Tom Cruise. Effettivamente, si tratta del remake americano del precedente spagnolo, dove Cruz interpreta lo stesso ruolo. Riecheggiano quindi le stesse atmosfere surreali e oniriche, dove lo spettatore fatica quanto il protagonista, Cesar ( Eduarto Noriega), a distinguere la realtà dall’immaginazione. Il ragazzo infatti, di ritorno da una festa dove si innamora follemente di Sofia (Penelope Cruz), si imbatte in una suo amore passato, Nuria, che in un gesto suicida lo ferisce gravemente, costringendolo al ricovero immediato. Ritornato alla sua vita precedente grazie ad un invasivo intervento chirurgico al volto, Cesar comincia una relazione con Sofia, apparentemente gioiosa e appagante. Il sogno si trasforma però in un incubo quando Nuria ritorna, asserendo di essere Sofia, e di quest’ultima si perde qualunque traccia…
Amenabar risulta incredibilmente capace di scavare nel subconscio umano, mettendo alla luce le contraddizioni che ci abitano e rivelando l’intreccio di emozioni che difficilmente riusciamo a spiegarci. Apparentemente incentrato su una storia d’amore, il film riflette così sulle fragilità della nostra società, sulle identità multiple e le maschere che indossiamo ogni giorno, alternando continuamente i piani narrativi in un gioco che lascia tanto spaesati quanto affascinati di fronte all’inspiegabilità di noi stessi.
22. The Others (2001)
Tra i registi spagnolo più insospettabili figura sicuramente Alejandro Amenabar. Insospettabile, perchè nulla nella sua cinematografia – dalla sceneggiatura alla scelta del cast – lo accomuna ai registi connazionali. Tra i suoi progetti all’attivo, sicuramente The Others è tra quelli che hanno riscosso maggiore successo di pubblico e critica.
La vicenda, dalle tinte thriller e horror vede come protagonista Grace (Nicole Kidman ), madre di Anne e Nicholas, una vedova di guerra pronta ad accogliere nella propria, isolata dimora vittoriana tre nuovi domestici. I sospetti sul loro conto iniziano a sorgere quando i nuovi arrivati dimostrano di conoscere perfettamente l’abitazione, avendoci lavorato solo tre anni prima. Allo stesso tempo, alcuni presagi inquietanti a poco a poco dissotterrano l’oscuro passato dei precedenti abitanti, portando alla luce segreti che porteranno Grace a traballare tra sanità e follia.
Anticipando di quasi vent’anni il Midsommar (2019) di Ari Aster, Amenabar ambienta un horror alla luce del sole, stravolgendo la più classica delle convenzioni del genere. Allo stesso modo non troviamo qui la prevedibile distinzione tra Bene e Male, ma una grande zona d’ombra dove colpevolezza e innocenza si intrecciano nell’animo di ogni personaggio, come d’altronde succede nella vita reale. Senza colpi di scena eclatanti, se non alla fine della pellicola, The Others riesce a mantenere alta la tensione per tutta la sua durata, rimettendo costantemente in discussione quelle certezze che aveva appena consolidato nel pubblico. L’operazione è sottile, Amenabar procede con estrema precisione e attenzione, riuscendo ad inchiodare chiunque alla poltrona, in preda all’angoscia. Per gli amanti dell’horror e non solo, decisamente da vedere, rivedere e diffondere tra amici e conoscenti.
23. Mare dentro (2004)
Dopo essere disceso nelle profondità della psiche umana con The Others (2001), Amenabar si mette alla prova con due pellicole drammatiche. La prima, Mare dentro, narra la storia vera di Ramòn Sampedro, scrittore spagnolo attivista per il riconoscimento dell’eutanasia legale. Premiato agli Oscar e ai Golden Globe, oltre a valere a Javier Bardem la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile al Festival di Venezia, il film riesce a penetrare nell’intimità di Sampedro, raccontando il suo percorso dal tragico tuffo in mare che lo rese paraplegico alla sua rivalsa nella lotta per la legalizzazione dell’eutanasia.
Il regista procede sommando primi piani e dettagli a musiche decisamente enfatiche, volte a sottolineare l’effetto melodrammatico. Sebbene con qualche scivolone verso il grottesco o l’eccessivo pietismo, la narrazione riesce ad appassionare, soprattutto per merito della straordinaria interpretazione di Javier Bardem e Belen Rueda, stimolando il dibattito su un tema che ancora oggi, a distanza di dieci anni, divide l’opinione pubblica. Altrettanto divisiva, in effetti, è la trattazione di tragedie personali sul grande schermo, dove il rischio di scivolare nella spettacolarizzazione del dolore è dietro l’angolo… Voi cosa ne pensate? Adesso su NowTv.
24. Agora (2009)
Seconda pellicola drammatica di Amenabar, Agora tratta nuovamente di una storia vera, questa volta datata I secolo d.C. La vicenda si ispira liberamente alla vita di Ipazia, una delle prime donne a realizzarsi negli studi scientifico-matematici ad Alessandia d’Egitto, durante la tragica stagione delle persecuzioni anti-pagane avviate dai decreti di Teodosio I.
Amenabar riesce molto bene a mantenersi in bilico tra la deriva didascalica, la spettacolarizzazione priva di fedeltà storica e l’eccesso di moralismo, realizzando un film capace di stimolare riflessioni sui risvolti problematici dei dogmatismi, senza smettere di intrattenere, coinvolgere e appassionare. La ricostruzione storica non danneggia quindi la godibilità del film, nè avviene il contrario, nonostante alcune debolezze dei comparti tecnici – i costumi forse avrebbero potuto essere meglio ricostruiti – e alcuni semplicismi nella scrittura dei personaggi, la cui caratterizzazione viene appiattita a vantaggio dell’azione.
Nel complesso, una buona compagnia per quelle serate in cui proprio non si sa cosa guardare, oscillando tra l’impegnato e l’intrattenimento puro: la qualità si mantiene medio-alta e l’immedesimazione nei personaggi è immediata, grazie alle buone interpretazioni del cast, che vede protagonista Rachel Weitz. Disponibile su AppleTV+.
25. Lo spirito dell’alveare (1973)
Lungometraggio d’esordio del madrileno Erice, Lo spirito dell’alveare rielabora il trauma della guerra civile e della dittatura franchista calandosi nei panni di una bambina. Nel 1940 Ana (Ana Torrent) guarda per la prima volta il film Frankenstein, convincendosi che il mostro esista realmente e viva in una casa abbandonata poco lontana. Il “mostro” in questione è in realtà un fuggiasco braccato dalla Guardia Civil, con il quale Ana intratterrà un rapporto sul confine tra fantasia e realtà fino a quando un tragico evento la riporterà bruscamente alla sua vita.
I toni della narrazione si fanno spesso surreali, intrecciando i vari piani allegorici – l’alveare, il mito di Frankenstein, l’infanzia, la nascita del cinema – con accostamenti enigmatici e complessi da decodificare, soprattutto perchè la regia sceglie di sottrarre, piuttosto che abbondare con i riferimenti espliciti. Erice procede per evocazione, limando le ridondanze e i passaggi eccessivamente didascalici per lasciare che lo spettatore accolga le suggestioni, che sono davvero ricchissime e danno la possibilità di percorrere un’ampia gamma di linee interpretative. Davvero una chicca che sarebbe un peccato lasciar andare all’oblio…
26. Kiki e i segreti del sesso (2016)
Brillante commedia dolceamara di Paco Leon, Kiki e i segreti del sesso presenta un’ampia panoramica delle infinite declinazioni e sfumature dietro la pratica sessuale, riuscendo a coniugare realismo, commedia e un pizzico di dramma.
La narrazione, come spesso succede nelle commedie nostrane, intreccia in modo episodico le storie di cinque coppie, ciascuna delle quali presenta dinamiche sessuali non sempre ortodosse. Vengono infatti introdotti e normalizzati concetti come la sonnofilia, la diacrifilia, l’efefilia e la dendrofilia, senza idealizzazioni nè condanne, utilizzando toni comici che tuttavia non celano le difficoltà e le sofferenze dietro ognuna delle situazioni rappresentate.
Il grande merito della pellicola è quindi quello di affrontare e rappresentare tematiche ancora tabù nella nostra società, aprendo un discorso sulle possibili sfaccettature del sesso che vengono normalizzate in contesti di vita quotidiani. D’altra parte, si potrebbe obiettare che i personaggi appaiano eccessivamente stereotipati, che la narrazione non porti fino in fondo la riflessione sulle problematicità di ogni storia o che il sesso venga in tutti i casi legato a questioni sentimentali, in maniera decisamente tradizionalista. Obiezioni lecite, tuttavia ci sembra si tratti di aspetti che non compromettono l’efficacia del film: grazie ai toni frizzanti, comici e alla trattazione a tratti superficiale, la pellicola riesce a coinvolgere un ampio spettro di pubblico senza scadere nell’elitismo, così da aprire un potenziale dialogo su queste tematiche anche tra coloro che con pellicole più impegnate non vi ci sarebbero avvicinati.
27. L’uomo dai mille volti (2016)
Su Prime Video questo thriller biografico di Alberto Rodriguez, pluripremiato al Festival di San Sebastian e vincitore del premio Goya per la sceneggiatura.
La vicenda è quella di Francisco Paesa (Eduard Fernandez), ex agente segreto del governo spagnolo coinvolto in una celebre operazione contro il gruppo terroristico basco dell’ETA. Vittima di estorsione, Paesa è costretto a lasciare la Spagna e a ricominciare una nuova vita, fino a quando bussa alla sua porta l’ex direttore della Guardia Civile, che gli offre una ricompensa di un milione di dollari in cambio del suo aiuto in un progetto abbastanza rischioso, che gli permetterà di vendicarsi del governo per il quale lavorava.
Cuore pulsante della narrazione è indubbiamente la macchinazione del piano e dell’inganno contro il governo spagnolo, che Paesa porta avanti con l’estrema perizia di un illusionista. Rodriguez cerca di tenere la pellicola in equilibrio tra l’esposizione fedele dei fatti di cronaca e la loro rappresentazione romanzata per accattivare il pubblico, con un risultato che definiremmo abbastanza buono, considerando che riesce ad evitare di scadere nella spettacolarizzazione eccessiva o di deviare verso l’action, come spesso succede in prodotti analoghi. ne consegue una mancanza di dinamismo e suspense che tuttavia arricchisce il racconto, piuttosto che indebolirlo, proprio perchè diverge dalle convenzioni dei generi a cui si ispira offrendone declinazioni alternative.
28. I desideri erotici di Christine (1973)
Ritorniamo agli anni ’70 con un prodotto anche conosciuto con i titoli italiani Una vergine tra i morti viventi e Gli zombie cannibali, subito rivelatori della sua carica erotica e orrorifica. Diretto da Jesus Franco, il film si apre con l’arrivo di Christine ( Christina von Blanc) al castello nel quale verrà aperto il testamento di suo padre. Dopo l’improvvisa morte della matrigna, però, la giovane scivolerà in un sonno denso di incubi e follia da quale sembra impossibile risvegliarsi.
La filmografia di Franco abbonda di horror a partire dai suoi primi lavori negli anni ’60, presentando un ampio repertorio dedicato alle pellicole sugli zombie, ai quali il regista riesce a dare un tono particolarmente inquietante. Per il resto, abbiamo davanti un buon caso di studio per gli appassionati di B-movie: Franco rimpasta materiale tratto da diversi prodotti già esistenti, con l’obiettivo non tanto di creare un’opera originale o dalla trama solida, quanto piuttosto di impressionare il pubblico e coccolarlo nella prevedibilità delle scene che si troverà a guadare. Da amare o odiare, poche sono le vie di mezzo.
29. Jamon jamon (1992)
In questa lista non poteva mancare Bigas Luna, regista tanto eccentrico quanto apprezzato a livello internazionale per il suo caratteristico tratto onirico e surreale, fil rouge di tutta la sua cinematografia. Iniziamo proprio con uno dei suoi progetti più iconici, vincitore del Leone d’argento al Festival di Venezia. Con un cast che annovera Javier Bardem, Penelope Cruz e Stefania Sandrelli, la vicenda è quella del tormentato amore tra Silvia e Josè Luis, figlio dei due titolari di una fabbrica di biancheria intima. No approvando la ragazza, la cui madre si dedica alla prostituzione per sopravvivere, i genitori di Luis architettano una trappola per i due giovani, così da porrre fine alla loro relazione. Tuttavia, la situazione si complica quando tra i vari attori in gioco cominciano a nascere sentimenti inaspettati, e in un concatenarsi di equivoci e intrecci appassionati, la pellicola si chiude in maniera davvero… bizzarra!
La critica si è letteralmente spaccata davanti a questa pellicola, tra chi ne ha esaltato gli aspetti allucinanti ben strutturati e chi vi ha visto solo un guazzabuglio di riferimenti erotici stanchi, accostati a simboli culinari senza connessioni di causa. Il verdetto sembra quindi categorico: capolavoro o da cestinare. Voi cosa ne pensate?
30. La teta y la luna (1994)
Rimaniamo con Bigas Luna per presentare un’altra delle sue pellicole più celebri, premiata a Venezia per la migliore sceneggiatura, dai toni al contempo erotici e surreali. Questa volta ad essere rappresentato è il complesso di Edipo di un ragazzino catalano di 9 anni: Tete (Biél Duran), oltre alla frustrazione di non riuscire a raggiungere la sommità di una piramide umana durante la feste del suo paese, viene sconvolto dall’arrivo in famiglia di un fratellino. Il neonato catalizza infatti le attenzioni dei genitori, e soprattutto priva Tete del seno della madre, verso il quale quest’ultimo mostra una forte ossessione. Alla ricerca di un palliativo, Tete si imbatte in Estrellita (Mathilda May) , sensuale ballerina francese giramondo, la quale tuttavia ha già sia un marito che un amante.
Procedendo in maniera circolare, la vicenda rappresenta in realtà il percorso di formazione di Tete, il suo passaggio all’età adulta e la sua iniziazione alla sessualità, senza mai scadere nella sterile esibizione di corpi nudi. Lontana infatti dall’esibizionismo volgare, la commedia di Bigas Luna piuttosto presenta in alcune sequenze echi quasi felliniani, richiamando l’Amarcord del 1973. La bizzarria e il grottesco tipici del regista sono ben bilanciati da momenti davvero divertenti nella loro semplicità, che ci portano ad esplorare non solo l’intimità di un ragazzino quasi adolescente, ma anche il folklore e il clima culturale di una pesino della provincia catalana degli anni Novanta. Non fatevi quindi ingannare dal titolo: la pellicola non sfiora mai la volgarità, ponendo invece al centro della narrazione la sessualità, la crisi dei ruoli di genere (nel personaggio di Maurice), l’età dello sviluppo e i complessi psicologici che la caratterizzano e la mentalità conservatrice di un contesto sociale costrittivo.
31. L’angoscia (1987)
Vincitore del Premio Goya per i migliori effetti speciali, L’angoscia è il più celebre horror di Bigas Luna. Da alcuni definito un esercizio di stile, il film è in realtà un omaggio al cinema stesso, con numerosissimi riferimenti alla storia della cinematografia mondiale da Buñuel a Hitchock passando per Haneke e Woody Allen, in una narrazione a matriosca che gioca con il labile confine tra realtà e finzione.
Una donna ipnotizza il figlio infermiere e lo persuade a uccidere alcuni pazienti per poi strappar loro gli occhi. In realtà siamo all’interno di un cinema e stiamo guardando una pellicola sullo schermo. Vicino a noi, una ragazza dal pubblico si alza per andare alla toilette dove scopre che un pazzo sta cercando di emulare il racconto proiettato in sala: un primo incastro intorno al quale la vicenda si avviluppa ulteriormente con il passare dei minuti, in un climax alquanto angosciante.
Come ogni racconto metanarrativo propriamente detto, L’angoscia stimola inevitabilmente riflessioni sul proprio ruolo come spettatore, sul dispositivo cinematografico e la sua capacità di permeare il reale, riducendo al minimo il caratteristico elemento surreale: l’inquietudine sorge spontaneamente dalla declinazione oscura di queste riflessioni, senza bisogno di aggiungere ulteriori elementi disturbanti.
32. Uova d’oro (1993)
A un anno da Jamon Jamon Bigas Luna e Javier Bardem tornano a fare coppia con un’aspra satira del ceto borghese, messa in scena nelle modalità surreali e dai numerosi riferimenti sessuali tipici dell’autore catalano.
Uova d’oro è la storia di Benito (Javier Bardem), impiegato come militare-carpentiere nel Marocco spagnolo. Dopo una brusca litigata con l’amico Miguel, Benito decide di tornare in Spagna con il sogno di arricchirsi a qualunque condizione. Diventa così costruttore di grattacieli e inizia ad accumulare capitali e garanzie attraverso la manipolazione di amici, fidanzate e soci d’affari, in una spirale dalla quale esce vivo per miracolo dopo un brutto incidente che vede la morte della sua amante.
Al centro della vicenda la spregiudicatezza di un uomo arrivista e corrotto dal denaro, tratteggiato con forti tinte machiste che muovono un’evidente critica ai ruolo di genere – basti pensare che il grattacielo al quale il protagonista lavora ha un’eloquente forma fallica. Sesso, denaro e potere dunque, in quella che potrebbe essere vista come la faccia marcia del mito del self-made man americano. Bardem in splendida forma, meno Bigas Luna, che comunque realizza una pellicola da recuperare per chi volesse navigare tra le mille declinazioni del suo personalissimo stile, capace di spaziare tra generi, contesti e tematiche molto distanti tra loro.
33. Il buco (2019)
Abbandoniamo Bigas Luna per presentare una pellicola freschissima e ancora disponibile su Netflix. In seno alla tradizione orrorifica spagnola, Gatzelu-Urrutia dirige una pellicola dalla trama tanto semplice quanto efficace, capace di veicolare una metafora in modo decisamente icastico. In una prigione sviluppata in verticale, i detenuti sono organizzati su più livelli, tra i quali viene fatta discendere una piattaforma, inizialmente carica di cibo. Ai livelli più alti, dunque, le persone hanno modo di nutrirsi con ogni leccornia, ma man mano che la piattaforma scende di livello, per i prigionieri ai piani inferiori non restano le briciole. La situazione diventa ulteriormente interessante se s considera che ogni mese, i due compagni che abitano ciascun piano vengono spostati di livello in maniera completamente casuale. Candidatosi come volontario per questa sinistra sperimentazione, Goreng si trova intrappolato in spietate dinamiche che non aveva previsto…
La metafora è chiara, a tratti didascalica: se solo i detenuti dei piani alti riuscissero a contenere l’ingordigia e a guardare con responsabilità al proprio privilegio, il cibo sarebbe sufficiente per l’intero carcere e gli inquilini dei piani più bassi non sarebbero spinti a gesti estremi pur di sopravvivere. Didascalica e talvolta ridondante certo, ma coerente e accessibile a chiunque, motivo per cui il film ha riscosso fin da subito un ampissimo consenso tra il pubblico generalista. Fortemente consigliato, ma attenzione agli stomaci delicati: le scene diventano talvolta feroci, violente e non si risparmiano momenti altamente disgustosi.
34. Vacas (1992)
Promettente debutto di Julio Medem, Vacas ottenne il Premio Goya per il miglior attore protagonista e come miglior regista esordiente. In linea con molta letteratura spagnola e sudaericana, il dramma racconta la storia di tre generazioni che si susseguono dal 1875 agli anni Trenta, attraversando il periodo carlista e la sanguinosa guerra civile. Il primo capitolo comincia infatti in una trincea carlista, dove un soldato, Manuel (Carmelo Gomez) si salva per miracolo coprendosi col sangue di un compagno per fingersi morto. Tornato a casa, Manuel sembra sviluppare un’ossessione per le vacche, al punto di perdere completamente la ragione. La narrazione a questo punto scivola fluidamente sulle vicende dei suoi familiari, i quali intrattengono rapporti sempre più complessi, oscuri e potenzialmente pericolosi con la famiglia del soldato morto di fianco a Manuel. I due capitoli successivi si svolgono rispettivamente durante la guerra mondiale e la guerra civile, intrecciando le storie morbose e passionali dei membri di queste due famiglie.
Il film rappresenta il debutto non solo di Medem, ma anche quello di Carmelo Gomez, che qui interpreta tre personaggi riuscendo a dare la corretta tridimensionalità e credibilità a ciascuno. In effetti la brillante interpretazione degli attori si accompagna ad un sonoro curatissimo, oltre che ad una regia ricca di soluzioni visive ed espressive. Inoltre, la pellicola abbonda di metafore e simbolismi capaci di aprire a nuovi livelli di lettura, soprattutto per gli spettatori più smaliziati e avvezzi alla storia e alla cultura spagnola. D’altronde, come molte delle pellicole nostrane, anche la cinematografia spagnola pecca talvolta di provincialismo, abbondando di riferimenti troppo specifici per essere compresi da un pubblico internazionale; Medem in questo lavoro riesce a mantenere in generale un buon equilibrio, stratificando i significati così da permettere a chiunque di godere della narrazione.
35. Tierra (1996)
Quattro anni dopo il suo esordio alla regia, Medem scrive e dirige questo thriller tutto giocato sul tema del doppio, guadagnando una candidatura al Festival di Cannes.
Angel (nuovamente Carmelo Gomez), ragazzo forse metà uomo e metà angelo, metà vivo e metà morto, lavora presso un’azienda vinicola dove si trova a proteggere i vigneti dalla cocciniglia. A risvegliare le sue opposte personalità sono due donne: Angela, madre di famiglia riservata, candida e dolce e Mari, sensuale, focosa e ancora nubile. Angel dovrà così risolvere lo scontro interno tra spirituale e materiale, romanticismo e ardore, nel tentativo di far convivere i diversi spiriti che lo abitano.
La pellicola, abbastanza sconosciuta al pubblico italiano, ha il merito di rappresentare una comunità locale con le sue specifiche dinamiche, senza mai abbandonare l’analisi introspettiva del protagonista, che risulta particolarmente efficace grazie ad un Gomez in splendida forma. In effetti, Medem si rivela estremamente abile nel mantenere in equilibrio una narrazione tanto trascendente e filosofica quanto concreta, terrena per l’appunto, giocando nuovamente coi multipli piani di lettura e con le allusioni metaforiche. Una piccola chicca che merita di essere scoperta.
36. Colossal (2016)
Su Amazon Prime Video una pellicola diretta da Nacho Vigalondo che, al contrario delle precedenti, ha conosciuto un’ampia diffusione a livello internazionale, evitando di scadere nel provincialismo e soprattutto impiegando un cast prevalentemente americano.
Gloria (Anne Hathaway) è una donna comune, ex giornalista da poco disoccupata e con una lieve tendenza all’alcolismo. Ritornata nella sua città natale dopo il licenziamento, iniziando una nuova vita come barista nel locale di un amico d’infanzia, Oliver (Jason Sudeikis), fino a quando non viene a sapere che una lucertola gigante sta distruggendo Seoul. Curiosamente, Gloria presto realizza che le azioni del mostro sembrano connesse alle proprie e subito si rivolge a Oscar per capire come risolvere la situazione. Tuttavia, nel tentativo di aiutarla, Oscar fa a sua volta apparire un grande robot: come mai la mente dei due amici sembra in grado di generare creature capaci di avere effetti così drammatici e colossali a livello mondiale?
Evidentemente il taglio fantascientifico e la mancanza di particolari riferimenti al contesto spagnolo hanno favorito la distribuzione mondiale della pellicola, collocando Vigalondo, al pari di Amenabar, tra i registi spagnoli più insospettabili. In realtà, entrambi gli autori menzionati mostrano la capacità di stratificare le proprie narrazioni, evitando quasi sempre i semplici esercizi di stile o la mera ripetizione delle convenzioni di genere, ed è questo un tratto tipicamente spagnolo. Di fronte ad un monster movie, per esempio, Vigalondo riesce a costruire una storia di abusi psicologici, alcolismo e lotte con i propri demoni interiori, dove ogni personaggio assume una tridimensionalità raramente riscontrabile in questo tipo di prodotto. Da recuperare prima che esca dal catalogo!
37. Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988)
Per concludere questo elenco assolutamente non esaustivo, eccoci infine ad Almodovar. Iniziamo dunque da uno sei sui film più iconici e rappresentativi: Donne sull’orlo di una crisi di nervi è sicuramente la pellicola che ha consacrato in regista al successo internazionale, dopo il suo debutto già scoppiettante con Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio (1980).
La vicenda si ispira a La voce umana di Cocteau ed è ambientata a Madrid dove Pepa (Carmen Maura) , doppiatrice cinematografica, riceve un messaggio d’addio dall’ex collega e compagno Ivan. La narrazione si articola intorno al tentativo di Pepa di contattare telefonicamente Ivan, nel tentativo di rivelagli di essere incinta prima che egli parta per Stoccolma. Durante questa giornata di chiamate fallimentari e di disperazione, Pepa riceve la visita di diversi ospiti, ciascuno dei quali coinvolto in vicende personali più o meno torbide, fino all’amica Candela ( Maria Barranco), che si trova casualmente incastrata in un complotto terroristico sciita. Alla fine della giornata Pepa si ritrova in aeroporto con Lucia (Julieta Serrano), ex moglie di Ivan desiderosa di ucciderlo per vendetta. Il finale non può che regalare delizie!
A detta del regista, la pellicola vuole muovere un’aspra critica al telefono e alla segreteria telefonnica, fedeli compagni delle persone vigliacche e bugiarde. D’altra parte, tale critica si incastra perfettamente in una trama che presenta i tratti più caratteristici del suo stile: i toni comici e allegri, talvolta sconfinati nel paradossale, l’intreccio di più vicende che si arrovellano sempre più su se stesse, i toni complessivamente pop e la presenza centrale delle donne. Sono stati spesi fiumi di parole sulla trattazione dell’universo femminile da parte di Almodovar, ma secondo noi la visione di anche solo uno dei suoi lavori può rivelarsi ancora più eloquente!
38. Tutto su mia madre (1999)
Premiato a Cannes per la miglior regia, vincitore di un Oscar e un Golden Globe come miglior film straniero, Tutto su mia madre presenta numerosi stilemi del cinema di Almodovar.
Nella Madrid postfranchista ed Esteban viene cresciuto dalla madre Manuela (Cecilia Roth) senza sapere l’identità di suo padre. Una sera, di ritorno uno spettacolo a teatro, il ragazzo rimane coinvolto in un incidente fatale: dopo la sua morte Manuela decide di trasferirsi a Barcellona alla ricerca dell’uomo con il quale aveva concepito Manuel, dal quale era scappata diciotto anni prima. Tuttavia, lo scenario che la attende nella nuova città supera ogni previsione: l’uomo ha completato la transizione e ora si chiama Lola. In realtà, questa è solo il primo di numerosissimi incontri che rovesceranno la vita di Manuela, ognuno con il proprio intreccio di storie, in una rete che diventa sempre più fitta e soffocante, perchè ogni storia sembra rivelare nuovi problemi e inquietudini della società spagnola moderna.
Oltre ai numerosi riferimenti alla storia del cinema mondiale – che rivelano tutta la cinefilia del regista – la pellicola concentra una buona parte dell’universo estetico proprio di Almodovar. Abbiamo infatti il rapporto tra genitori e figli, l’indagine sociale della Spagna nel difficoltoso processo di modernizzazione postfranchista e il rapporto sempre più ibrido tra maschile e femminile. Tutto trattato con toni che oscillano tra il dramma e la commedia senza soluzione di continuità, riuscendo a catturare i tratti dolceamari e tragicomici che caratterizzano gli esseri umani – in modo straordinariamente simile alla Comedie Humaine di Balzac. Si tratta in definitiva di un film davvero pregno di umanità, capace di toccare con delicatezza e senza sfoggi virtuosistici i tasti più profondi di una realtà nel pieno della crisi.
39. Volver (2006)
Al solo menzionare il titolo di questa pellicola, i più affezionati saranno trasportati immediatamente alle dolci note della canzone omonima, nella versione di Penelope Cruz o Estrella Morente. Volver appartiene alla fase più tarda della produzione di Almodovar, un dramma vincitore del premio per la migliore sceneggiatura e interpretazione femminile a Cannes.
La protagonista è Raimunda (Penelope Cruz, ormai musa del cineasta), giovane donna originaria della Mancia ora trasferitasi a Madrid con il compagno Paco e la figlia Paula. Quest’ultima finisce per uccidere il padre durante uno dei numerosi tentativi di abuso: venuta a conoscenza dell’accaduto, Raimunda subito si organizza per proteggere la figlia occultando il cadavere. Nel frattempo sua sorella Sole (Lola Dueñas) è alle prese con il fantasma della madre Irene (la Carmen Maura del primissimo Almodovar), che si è stabilita a casa sua sotto mentite spoglie e sembra più viva che mai. Le vicende delle due sorelle finiscono inevitabilmente per intrecciarsi l’una nell’altra, rivelando a poco a poco i retroscena inquietanti che portarono Raimunda a fuggire dalla Mancia molti anni prima…
Volver significa tornare: tornano, in questa pellicola, i temi cari al regista, questa volta tutti declinati al femminile, in una narrazione che mette al centro d’indagine proprio le donne, la maternità e le loro molteplici sfaccettature. Tornano inoltre alcune delle sue attrici più care, che mettono in scena un dramma capace di fondere passato e presente in una fuga dai propri traumi che si rivela fatalmente illusoria. Nell’impossibilità di fuggire, non rimane dunque che tornare all’origine, al grembo materno e alla propria condizione essenziale di donna: un racconto dolce e delicatissimo, in grado di affrontare temi dolorosi senza scadere nel pietismo, come ci aspettiamo dal miglior Almodovar.
40. Carne tremula (1997)
Dopo quasi vent’anni dal suo esordio registico, Almodovar propone questa storia liberamente ispirata al romanzo ” Carne viva”, di Rendell, che viene qui ambientato nel clima sociale di una Madrid liberata dal franchismo.
Victor (Liberto Rabal), nato nel 1970 su un autobus urbano, all’età di vent’anni incontra Elena (Francesca Neri), giovane tossicodipendente con la quale una notte perde la verginità. Victor rimane folgorato, ma il suo sentimento non sembra ricambiato: una sera decide quindi di presentarsi a casa della ragazza per chiederle spiegazioni, e prevedibilmente scoppia una lite. Ad intervenire sono due poliziotti, uno dei quali, David (Javier Bardem) rimane paralizzato alle gambe a seguito di un proiettile sparato durante la colluttazione. Quattro anni dopo, David ed Elena si sono sposati, mentre Victor cerca disperatamente di riaggiustare la propria vita e di superare la brama di vendetta maturata nel suo periodo in carcere, al quale era stato condannato per il colpo sparato la notte dell’incidente.
Sebbene a prima vista possa sembrare poco almodovariano, il film intreccia in realtà tanti dei temi cari al regista, raccontati con lo stile che ormai lo contraddistingue: si avverte la sua urgenza di parlare della Spagna postfranchista, della società nella quale è cresciuto, mettendo in luce soprattutto le passioni e i dolori della gente. Abbondano le allusioni al corpo, alla carne per l’appunto, che nel film pulsa e si infiamma a tratti in modo macabro. E’ una pellicola densa di materialità corporale e di appetiti umani, dall’odio all’amore folle, messi in scena in maniera tragicomica – qui forse più tragica che comica – e grottesca, con un’estetica pop qui non così tanto spinta. In definitiva, una vera e propria giostra di montagne russe nell’animo umano, assolutamente da recuperare su Prime Video.
41. La mala educaciòn (2004)
Considerata come opera minore del regista spagnolo, La mala educaciòn condensa in realtà alcuni temi cardine nella produzione di Almodovar. Si tratta infatti di un’opera fortemente metariflessiva, un vero e proprio omaggio al cinema da parte di un autore che ha sempre inserito citazioni e riferimenti nascosti nelle sue pellicole. D’altra parte, non mancano gli spunti autobiografici, l’analisi sempre intensa dell’universo femminile e delle declinazioni della sessualità.
Protagonista della vicenda è Enrique (Fele Martinez), un giovane regista che nella Madrid del 1980 ritrova casualmente un vecchio amico e aspirante attore, Ignacio, anche detto Angel. Utilizzando il cinema come strumento, i due cominciano a rielaborare i traumi del passato in collegio, costruendo narrazioni che li aiutino a liberarsi dei tanti fantasmi che popolano le loro esistenze.
Il motivo per cui il film non rientra nell’Olimpo almodovariano è abbastanza chiaro: pur presentando i tratti più peculiari del suo cinema, la trattazione tende ad essere sterile, fredda, priva dell’umorismo e della sagacia che costituiscono ormai il suo marchio di fabbrica. L’intreccio diventa così un labirinto nel quale non si prova tanto l’emozione di un gioco nuovo, quanto un forte senso di incomprensibilità. Senza sminuire queste problematiche, il film mantiene la sua singolarità nell’universo narrativo del regista: si tratta forse dell’unico caso in cui Almodovar si confronta con il genere noir, mostrando un’incertezza nella costruzione narrativi che diventa subito più comprensibile.
42. Dolor y gloria (2019)
Chiudiamo questo elenco che potrebbe proseguire all’infinito con la pellicola che ha valso ad Almodovar quattro premi Goya e due nomine agli Oscar.
Interpretato da un brillante Antonio Banderas, Salvador Mallo è un regista ormai in declino, tanto nella carriera quanto nella vita privata. In effetti, è in declino il suo stesso corpo, come testimoniano i mal di testa cronici e i problemi alla schiena. Quando uno dei suoi film viene restaurato e gli viene chiesto di presentarlo personalmente in salta. Salvador si trova a ricontattare il protagonista della pellicola in questione, Alberto (Asier Etxeandia), con il quale aveva chiuso i contatti a seguito di una pesante discussione. Queste le premesse da cui in realtà prende avvio una vicenda fortemente introspettiva, nella quale Salvador si trova a ripercorrere episodi chiave del proprio passato, tanto attraverso incontri presenti quanto flashback e memorie che ritornano.
Se La mala educaciòn (2004) ha rappresentato per Almodovar un primo tentativo, solo parzialmente riuscito, di scavare nella propria vita mettendosi a nudo, Dolor y Gloria raggiunge l’obiettivo con il massimo dei voti. Senza ridondanze, edulcorazioni o sentimentalismi abbiamo infatti di fronte un regista che riesamina sullo schermo le dinamiche problematiche del proprio passato, mentre il cinema diventa al contempo matrice esistenziale per il protagonista e strumento di autoconsapevolezza. Quel tocco icastico, pop e autoironico che mancava nel tentativo precedente, inoltre, viene qui marcato dando ulteriore valore all’opera finale. Da recuperare il prima possibile, senza giustificazioni!