“It’s not TV, it’s HBO”
Così dieci anni fa uno dei canali via cavo americani più importanti e di successo (e che più hanno determinato la storia della serialità televisiva odierna) pubblicizzava sé stesso per dire che andava oltre il “piccolo schermo” della TV, lo travalicava, per quei (all’epoca chiamati) telefilm che stavano trovando sempre più spazio nel panorama mondiale come una vera e propria concorrenza al cinema, che invece di suo iniziava a perdere colpi e ad accusare forse un po’ di stanchezza con il passare degli anni.
In questo approfondimento ripercorreremo i recenti cambiamenti di grande e piccolo schermo, determinando, infine, quella che è la situazione attuale di cinema e TV.
Le “serie B”
Le serie (come le chiamiamo oggi, senza “TV” dato il proliferarsi di piattaforme e devices dove fruirne) si stavano facendo strada tra il pubblico di spettatori sempre più esigenti e anche tra la critica specializzata, sempre più incuriosita da quello che nel giro di qualche anno sarebbe diventato un vero e proprio fenomeno di massa, portando alla creazione di piattaforme come Netflix e all’era della cosiddetta “peak tv”, ovvero dell’offerta seriale che straborda, che è arrivata all’eccesso contrario (pensate a quanto tempo si perde nello sfogliare i cataloghi di una piattaforma rispetto a quello effettivo di visione dei prodotti).
Visti (erroneamente) come un prodotto “di serie B” o che comunque serviva più che altro all’intrattenimento – perché non dimentichiamo che per quello sono nati e per questo la loro principale caratteristica è la scrittura, prima di altri aspetti tecnici – i serial televisivi si sono così fatti le ossa.
Sono cresciuti e maturati attirando a sé non solo una cura (anche e soprattutto sulla tv via cavo) sopraffina per regia e messa in scena, con grandi dispendi da parte delle produzioni per ricostruzioni, location e effetti speciali, ma attraendo nella propria orbita anche star che dal grande schermo volevano fare una capatina su questo tanto chiacchierato “piccolo” schermo, complice l’escamotage delle miniserie: pochi episodi e un periodo di tempo limitato per girare e non i canonici nove mesi l’anno come per le serie della tv generalista americana, che accompagnano il pubblico durante tutto l’anno. È così che nomi come Kate Winslet e Steve Buscemi si avventuravano sul carrozzone della serialità che acquisiva sempre più punti e riconoscimenti.
La TV non si guarda più in TV
Un ventennio di cambiamenti dai primi anni 2000 ad oggi nelle abitudini di visione del pubblico ha creato un’offerta sempre più variegata, per tutti i palati, nonché una concorrenza quasi spietata data proprio dalle tantissime (forse troppe) produzioni oramai attive. Ed è cambiato proprio lo schermo della fruizione da parte dello spettatore: oggi le serie (soprattutto quelle delle piattaforme, che vanno per la maggiore) vengono viste anche su device molto piccoli come i cellulari, in metro con le cuffie, quindi con elementi disturbanti intorno. Non c’è quasi più il rito della visione, o meglio è cambiato drasticamente. I serial vengono mangiati bulimicamente in un sol boccone in un weekend con grandi maratone, per poi dimenticarsene subito dopo, tanto che le piattaforme – Netflix in primis – hanno costruito la propria forza proprio sul binge-watching.
Quando però quest’ultimo è diventato così diffuso a causa del proliferarsi dell’offerta, il ritorno a un appuntamento settimanale e alla serialità “di una volta” da parte di alcuni – come Disney+ o Apple Tv+ – si è rivelato una mossa nostalgica da un lato (proprio come i tempi che viviamo anche a livello di contenuti nell’audiovisivo) e di mercato dall’altra (gli utenti sono portati a mantenere l’abbonamento per più mesi per poter continuare a seguire le proprie serie preferite). Quasi una ventata d’aria fresca per le vecchie generazioni, e una battuta d’arresto per la Generazione Z, che molto spesso aspetta comunque che una serie finisca la sua messa in onda per poi trangugiarla tutta d’un fiato, come ci tiene a raccontare sui social, perché cresciuta con un altro modello d’intrattenimento e di fruizione. Si è tornati insomma al rito del mettersi davanti alla tv, con calma e tranquillità e magari qualche snack ad accompagnare la visione, ma senza pubblicità (altra grande novità delle piattaforme streaming).
Con tutto questo proliferarsi è accaduto paradossalmente l’opposto: il modello Netflix (per fortuna non l’unico esistente oramai) ha preferito la quantità alla qualità, dando oramai prodotti mediocri per la maggior parte, obbligando a fare una ricerca molto più accurata, per trovare veri e propri fenomeni seriali come i vari Lost, I Soprano, Breaking Bad, Mad Men, Il Trono di Spade. Non solo: un grande attore o un grande regista che scelgono di avventurarsi tra i lidi seriali, non fanno più notizia, e anzi spesso non portano a risultati necessariamente eccezionali perché non conoscono bene il mezzo (che continua a basarsi più di tutto sulla scrittura, non dimentichiamolo).
La pandemia
La pandemia dell’ultimo anno e mezzo ha poi dato un’ulteriore battuta d’arresto alla questione. Le serie ci hanno tenuto compagnia nei mesi più bui del lockdown, con i cinema chiusi così come altri luoghi di ritrovo e divertimento, facendoci viaggiare invece negli universi del (non più così) piccolo schermo. Senza contare quei pochi film usciti direttamente in streaming è stata la moderna serialità a riempire i buchi di palinsesto, a permettere grandi recuperi di cult passati che non si aveva mai avuto il tempo di vedere (o rivedere), a far avviare importanti Fasi come quella del Marvel Cinematic Universe – che mai ci saremmo aspettati iniziasse con un prodotto come WandaVision celebrandone proprio la vecchia serialità.
E nel frattempo che cosa ha fatto il cinema? Oltre a cercare di superare la crisi delle sale mezze vuote già prima della pandemia, la settima arte si è vista a sua volta contaminata da quanto accadeva in TV e sulle piattaforme. Le saghe cinematografiche sono sempre esistite, ma un tale utilizzo di capitoli sul grande schermo non si era mai visto come nell’ultimo decennio. Basti pensare all’Hercule Poirot di Kenneth Branagh in Assassinio sull’Orient Express e ora in Assassinio sul Nilo, ai vari prequel e spin-off cinematografici, e alla vera e propria ‘serie TV al cinema’ che i Marvel Studios hanno sorprendentemente e sapientemente creato con il Marvel Cinematic Universe con tanto di stagioni (le Fasi), episodi (i film), crossover e collegamenti vari, collegando poi addirittura piccolo e grande schermo con l’avvento di Disney+.
Inoltre, se ci si fa caso, i film degli ultimi anni hanno allungato la propria durata media: non più un’ora e mezza, ma due ore. Potrà sembrare un cambiamento di poco conto, ma non è così, soprattutto perché spesso quella mezz’ora in più si sente tutta durante la visione, a dispetto delle intenzioni del regista. Qual era l’intenzione? Non lo sappiamo per certo, ma il sospetto è che abbia a che fare col maggior tempo a disposizione per esplorare un personaggio, il rapporto fra due personaggi e così via. Una caratteristica presa direttamente dalla serialità, uno dei cui pregi è proprio l’avere modo di far evolvere un personaggio in tantissime ore, episodi, stagioni, anni e mostrarne tutte le sfaccettature. Ma al cinema il tempo narrativo non si può aggiungere o sostituire così, il rischio è proprio l’effetto contrario. Chiariamoci: le pellicole di tre ore ci sono sempre state, così come esistono ancora adesso i film di un’ora e mezza, ma sono più rari. Come ci ha insegnato Lost “le coincidenze non esistono”.
Quindi a conclusione di questa nostra riflessione, quale futuro per la serialità e per il cinema? Mai come in quest’anno e mezzo di pandemia ce lo stiamo chiedendo, e al momento non abbiamo i dati e gli strumenti per poter rispondere senza sembrare profeti all’orizzonte, ma una cosa possiamo dirla con certezza: lo schermo, piccolo o grande che sia, tangibile od olografico, non ci abbandonerà mai. Altrimenti non saremmo “una generazione che passa tutto il suo tempo davanti ad uno schermo” come viene spesso detto dagli adulti (che sia quello di un videogioco o del pc per chi è cresciuto negli anni ’80-’90 oppure quello di uno smartphone per la generazione Z).