Il signore delle formiche di Gianni Amelio è ispirato a una storia vera: la pellicola racconta un periodo difficile della vita di Aldo Braibanti, intellettuale antifascista, sceneggiatore, regista, curatore di trasmissioni radio e mirmecologo (studioso delle formiche), omosessuale, unico in Italia ad essere stato condannato per plagio. Una legge del periodo fascista che fu usata contro Braibanti, accusato di aver manipolato Giovanni Sanfratello, uno studente maggiorenne.
Aldo Braibanti è stato un partigiano ed un esponente del Partito Comunista Italiano, fino al 1947, quando lascia la politica con una poesia che iniziava con la frase: “non è un addio ma un congedo“. Nato a Fiorenzuola d’Arda in provincia di Piacenza nel 1922, Aldo torna nel suo paese proprio dopo il suo congedo dalla politica, qui dà vita ad un laboratorio culturale presso il Torrione Farnese di Castell’Arquato, attorno al quale si radunano molti giovani del piacentino e dell’Emilia. Tra questi c’è Giovanni Sanfratello (che nel film si chiama Ettore), è il ragazzo che secondo le accuse sarà plagiato da Aldo Braibanti. In realtà, Giovanni fugge da una famiglia ultra cattolica e fascista e da un padre padrone che non accetta la sua omosessualità. Giovanni trova in Braibanti ospitalità, affetto e comprensione e, in un secondo momento, l’amore.
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Aldo convince il giovane ad abbandonare la facoltà di medicina per seguire la sua vera passione, la pittura. Una decisione che la sua famiglia disapprova. Quando il contratto di fitto del Torrione Farnese non viene rinnovato, Aldo decide di trasferirsi a Roma. Siamo nel 1964, Giovanni segue Aldo, va a convivere con lui e l’intellettuale introduce il giovane compagno agli ambienti culturali della capitale. Nel frattempo, Braibanti fonda la rivista Quaderni Piacentini insieme ai fratelli Giorgio e Marco Bellocchio e tiene una mostra di assemblages.
Un anno dopo, quattro persone, tra cui il fratello di Giovanni, irrompono nella pensione dove i due vivono e rapiscono il ragazzo, trascinandolo in macchina con la forza. Il giovane, secondo la famiglia, deve essere curato dalla sua omosessualità, per questo lo portano in una clinica privata per malattie nervose e poi lo trasferiscono al manicomio di Verona. L’odissea del giovane viene raccontata da Alberto Moravia che, nel testo Sotto il nome di plagio, scrive che Giovanni ha subito: “un grande numero di elettroshock e vari shock insulinici. Tutto questo contro la sua volontà, tenendolo isolato dai suoi amici, dai suoi avvocati e da chiunque avesse ascoltato le sue ragioni”.
Pochi giorni prima dell’irruzione, il 12 ottobre del 1964, il padre di Giovanni presenta denuncia contro Aldo Braibanti presso la Procura di Roma, con l’accusa di plagio. In pratica, l’intellettuale viene accusato da Sanfratello di aver influenzato suo figlio e di avergli imposto le proprie visioni e i propri principi. Il reato di plagio era stato concepito dal governo fascista per colpire i “diversi”, intesi sia dal punto di vista politico, come i comunisti, che dal punto di vista sessuale.
Il processo ad Aldo Braibanti dura quattro anni, al suo fianco si schierano Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Eco, Marco Pannella, Cesare Musatti, Dacia Maraini. Il direttore dell’Unità Maurizio Ferrara, nella prima pagina del suo giornale, parla di: “processo aberrante” chiedendosi “paradossalmente, se un reato di ‘plagio’ esiste, come dovrebbe chiamarsi l’attività di chi si dedica a convertire i cosiddetti infedeli o indifferenti, riuscendo persino a far loro abbandonare patria, lavoro e famiglia per trasformarsi, poniamo, in monaci o suore di clausura!”.
Lo stesso Giovanni Sanfratello, nonostante le torture subite in manicomio, testimonia in Tribunale in favore di Aldo, sostenendo che le sue sono state libere scelte. Il Pubblico Ministero nell’arringa finale considera la testimonianza del giovane un’ulteriore prova che la sua mente sia stata plagiata: “Il giovane Sanfratello è un malato, e la sua malattia ha un nome: Aldo Braibanti”.
Alla fine del processo Aldo Braibanti viene condannato a nove anni di carcere, ridotti a quattro anni in appello. Dopo due anni viene scarcerato perché gli vengono riconosciuti i suoi meriti durante la lotta partigiana. È stata la prima ed unica condanna di plagio in Italia: successivamente la legge verrà dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 96 del 9 aprile 1981.