Nell’estate del 2023 Bertrand Bonello stordiva una Mostra del Cinema di Venezia piegata da silenzi innaturali e red carpet svuotati. Il suo The Beast si affacciava al presente coniugandolo a un futuro fin troppo prossimo, attenzionando i vettori dell’umanità come ultimi baluardi di difesa contro il surrogato artificiale di un’intelligenza emotiva anestetizzata. La bestia neutralizzata dal film si nascondeva nell’ombra buia di una premonizione temporale che proprio in quel momento si scopriva, incredibilmente, contemporanea.
Nell’estate del 2023, infatti, i connotati della contemporaneità parlavano di scioperi e lotte hollywoodiane per una migliore regolamentazione degli usi dell’intelligenza artificiale. E Bonello, a due passi da quei vuoti e silenziosi tappeti rossi, presentava un’opera profetica sul tema. Ora The Beast è al cinema, il futuro è diventato presente e forse è ora di esperirlo al tempo passato, seguendo i passi della sua protagonista.
Che cos’è la bestia?
Quando ci si trova di fronte a un film come The Beast è lecito non sapere dove indirizzare lo sguardo. La sua connotazione postmoderna ne fluidifica la struttura sovraccaricandola e scorporandola in istintiva esperienza percettiva – centrifugata tra generi cinematografici, dislivelli rappresentazionali e relativi sistemi di senso. Ma se un interrogativo riesce a dominare la visione, è ragionevole cominciare da lì. Che cos’è, allora, questa bestia da cui Bonello vuole metterci in guardia?
Partiamo da un assunto semplice: la bestia è innanzitutto immagine – o meglio, un’immagine assente. È la virtualità spaventosa di una minaccia remota eppure tangibile, quel tipo di angoscia emotiva che attanaglia Gabrielle (Léa Seydoux) in ciascuna incarnazione della sua vita, allontanandola da una reale conoscenza (ed esperienza) di sé. Nel corso del suo visionario balletto mentale, The Beast attraversa tre diverse epoche storiche (e vite passate e presenti) al fine di incamerare le personalità addizionali che la protagonista è chiamata a rivivere nel processo di purificazione del suo DNA.
Purificarsi, nel 2044 che ospita il presente della donna, significa ammaestrare le proprie emozioni, senza sopprimerle del tutto, ma diventando capace di canalizzarle con un sereno automatismo. Così Gabrielle, nella speranza di ottenere un lavoro che la faccia sentire utile per la strana società di cui fa parte, decide di sottoporsi a un ritocco del proprio inconscio, intervenendo chirurgicamente nel ripulire il trauma dalle sue smisurate capacità di contaminazione.
È un’identità fantasmatica
Raggiungere il suo obiettivo di piena performatività significa per Gabrielle seguire un tracciato intrinsecamente vincolato alla compressione emotiva e all’appropriazione di un vissuto da ricalibrare. Ciò equivale a peregrinare tra le rappresentazioni di un tempo mnemonico, psichico, tutto esperito dal filtraggio esperienziale delle proprie vite passate. La memoria, in quanto somma disarmonica di momenti da ri-attraversare, funziona in The Beast come interferenza diegetica dello strabordante inconscio della protagonista: le reminiscenze del passato agiscono con disordine e inganno tra le linee temporali – alterando, trasfigurando e sovrapponendo sentimenti, paure, fragilità e regimi di realtà.
Man mano che gli anni si sommano, muovendosi cronologicamente in avanti (1910, 2014, 2044), The Beast inizia ad accostare al principio mimetico della memoria un ulteriore scalino di sintetizzazione, stratificando con sempre meno gradualità un’immagine di sé passata, presente e futura soggetta a una spersonalizzante disgregazione. Il presagio di morte avvertito dalla bestia è incoraggiato dalla difficoltà di scovare se stessi oltre le proprie repliche e così avanza sgangherato attraverso le interferenze dei generi, il de-costruirsi della consequenzialità spazio-temporale e l’infrangersi della stabilità – agevolato da una virulenta manipolazione filmografica e dal suo eccedente vocabolario visivo: split screen, glitch, jump cut, fermo immagini, urti temporali e una moltiplicazione di dispositivi contagiati da virus, pop up e finestre di reciproco spionaggio.
Ecco allora che nel viaggio onirico della donna si inanellano le scorie di un’identità sempre più difficile da localizzare, nascosta sotto strati di rappresentato che da un lato fagocitano il progressivo precipitare dell’umano verso il vuoto atrofizzato dell’intelligenza artificiale e dall’altro tradiscono la vulnerabilità dei processi psichici che di volta in volta formalizzano una diversa e uguale Gabrielle, resistente alla restrizione emotiva e traboccante di complessità.
È una bambola
Tuttavia, per preservare se stessa e collocarsi nel mondo in cui abita, Gabrielle ha bisogno di elaborare i suoi traumi, seguendo un principio terapeutico proprio o collettivamente imposto. Si è già detto di come, slittando in avanti, l’identità si faccia sempre più fallace riproduzione di se stessa. Ma il primo e più importante sdoppiamento di Gabrielle ha origine, in realtà, dall’insieme delle bambole che l’accompagnano lungo i vicendevoli percorsi emancipatori.
Nel 1910 assistiamo al modo in cui le bambole inanimate vengono assemblate per la prima volta in una forma, prendendo ispirazione dai tratti fisiognomici della stessa Gabrielle – nata come modello unico e originario di tutte le sue repliche. Lei è loro, ma le rispettive evoluzioni sembrano procedere in direzioni inverse. Se nella prima vita esplorata da The Beast le bambole hanno una sola caratterizzazione, ossia l’espressione neutra di un’emotività adattabile a tutti, con il procedere degli anni è una concitata vivificazione ad attivarne la percettività.
Dopo essersi iniziata ad animare nell’intermezzo del 2014, cimentandosi nelle prime e passive interazioni con gli esseri umani, nel 2044 la bambola diventa ufficialmente donna, dotata di una gamma espressiva sintetica di sentimenti e pulsioni da condividere. La distopia di The Beast si muove tra spazi aperti molto simili a quelli odierni, dove ad essere cambiati sono gli atteggiamenti e le tipologie di relazioni: in questi ambienti rarefatti e privi di contatto, in cui l’umanità si aggira solitaria con indosso le sue maschere, la bambola diviene amica e copia perfezionata di un’umanità finalmente vendibile al prossimo, capace di provare un’empatia prefabbricata e inoffensiva.
È un principio di resistenza
Al contrario (e in un processo ciclico di ritorno alla bambola), i sentimenti di Gabrielle sono stati sottoposti a diradamento, sempre meno accessibili da un’identità che si è via via dissociata da sé, scomponendosi in pezzi inanimati. Se all’inizio la donna sentiva, ora è tenuta a mitigare, inseguendo il dominio rassicurante di un’espressività usa e getta, spendibile in ogni tipo di situazione sociale.
Arrivati a questo punto, però, The Beast inizia a sbugiardare la natura della sua bestia, scagionando il suo bighellonare nel vespaio psichico di una protagonista riluttante e annoiata dall’aspirata neutralità socio-emozionale. A ogni sgambetto inter-dimensionale e a ciascuna richiesta di appianamento della propria fragilità, Gabrielle risponde facendosi pasto per la sua bestia, rigettando l’artificiosità e rifiutando il modello primario di una collettività che da sempre la vorrebbe bambola – prima, sola e una fra le tante.
Il suo percorso di emancipazione inizia così a snodarsi scostante nella storicità, combattendo contro le sue personali virtualità in nome di una riconciliata autenticità. In tal modo, divenendo progressivamente bambola nel processo addomesticato di auto-rappresentazione, Gabrielle impara a svestirsi di ogni suo orpello mentale, incamminandosi verso una reale e definitiva purificazione dal proprio trauma.
È la paura di amare
Ma qual è, allora, il vero trauma di Gabrielle? Per comprenderlo la donna deve tornare indietro alla paura, alla minaccia di un sentimento che l’affonda nella realtà, a quel limite scenico di una memoria che termina sempre nel presagio della sua morte.
Una volta snidato delle sue polarità linguistiche e narrative, The Beast si rivela nient’altro che il racconto di un amore irrealizzato. O per meglio dire: la rappresentazione del disfunzionamento mentale di un sentimento amoroso irrealizzabile. L’intero corso del rapporto con Louis (George MacKay) diventa allora per Gabrielle il reiterarsi traumatico di un’attrazione. Al suo interno i rispettivi ruoli possono invertirsi, intrecciarsi o non incontrarsi mai, ma rimangono sempre affogati nella ricorsività di un meccanismo errato, svenato dall’incapacità di percepirsi indifesi e fragili di fronte all’altro.
La paura di amare e il relativo timore di perdersi innescano ogni volta, in Louis e Gabrielle, un reciproco riconoscimento, calamitandoli all’interno di un impossibile regime d’attrazione che necessita di essere compreso, sanato e disinnestato. La bestia che Gabrielle teme, e nella cui immaginazione proietta l’imminenza della catastrofe, è in realtà la creatura a cui ha bisogno di concedersi completamente, lasciando che la mente la ricomponga in consapevolezza. A dover essere ripulita, in verità, è la sua esitazione di fronte alla guarigione.
The Beast, o cosa non è la bestia
Se la natura artificiale del cinema e delle immagini si fa cumulativa simbologia di un soffocamento emotivo che coinvolge l’umanità tutta, l’immagine diviene anche cornice immersiva di un rimosso personale che ha urgenza di essere rintracciato. Quindi, nel culmine della riproducibilità visiva e sul crinale del completo annullamento espressivo, The Beast decide di sprigionare la sua bestia dal fuoricampo. Nel 2044 e all’interno di una zona franca, cioè in uno di quei club futuristici in cui è nostalgicamente concesso tutto ciò che non è possibile altrove, Gabrielle e Louis hanno l’opportunità di incontrarsi realmente. Lì, dove le emozioni sono libere di spurgare, fondendosi e infettandosi di paura e di passione, quel non-luogo mentale diventa testimone di un’avvenuta evoluzione.
Troppo tardi Gabrielle riconduce al timore dei suoi sentimenti il mancato coronamento del proprio amore, ma appena in tempo riscatta il controllo di sé scegliendo di instradarsi libera verso una sua autodeterminazione. Danzando in mezzo alle paure, Gabrielle cessa infine di essere bambola, replica e immagine di se stessa, accettando (e soffrendo) la natura contradditoria di ciò che la tiene in vita. Quando il trauma è disinnescato e l’emozione incorporata, alla donna non resta che riconnettersi con la sua bestia, ri-assimilando a sé tutto il rimosso stanato dall’ombra, vulnerabile moltiplicatore di una complessità cui attingere, ora, senza alcuna necessità di semplificazione.
Al termine di questa virtuosistica avventura audiovisiva, la bestia da cui Bonello ci ha sempre tenuti in guardia si smaschera, semplicemente, come la difesa di uno stato fragile, della sua insanabile anomalia, del valore differenziale di ciò che ci rende – ancora – dei difettosi e sani involucri umani.
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