Presentato in anteprima all’ultima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Stranger Eyes si riveste dei codici del thriller per farsi immagine da indagare all’interno di un intricato e discontinuo gioco scopico con il suo spettatore. Yeo Siew Hua maneggia con ingegno le regole del genere, mimando linguisticamente una tensione prima catturata e poi riversata sulle aspettative di chi guarda, disattese progressivamente da un ipnotico incedere verso una verità altra – fatta di fuoricampo, zone d’ombra e illusorie parvenze di completezza.
Stranger Eyes rivela allora la sua natura di squarcio visivo su una crisi identitaria, esistenziale, genitoriale e familiare, frammentata in processi trasformativi che tutto hanno a che fare con l’atto attivo dell’essere guardati e del guardare: slittando da sé all’altro e viceversa, cosa succede quando il nostro sguardo esce da noi e ci ritorna diverso? Come influenza il nostro agire? Cosa racconta davvero di noi?
Genere: Drammatico, Thriller
Durata: 125 minuti
Uscita: 14 Novembre 2024 (Cinema)
Cast: Chien-Ho Wu, Lee Kang-sheng
Stranger Eyes, la dispersione dello sguardo
Per ragionare sulla dialettica tra osservatore e osservato, Yeo Siew Hua si affida a una graduale stratificazione dei processi di estensione, manipolazione e controllo dell’occhio umano. Prende avvio proprio da lì, dall’occhio umano distratto di un padre (Wu Chien-Ho) impotente di fronte alla sparizione della sua bambina. Penetriamo nella realtà domestica di Stranger Eyes attraverso coordinate che ci rassicurano, sgattaioliamo tra le mura di casa della coppia genitoriale per cercare di familiarizzare con quanto successo. La figlia è scomparsa da qualche mese, ma la polizia invita alla pazienza. All’improvviso alla famiglia iniziano a essere recapitati dei DVD contenenti filmati della loro vita quotidiana, presente e passata, sbirciata con quel tipo di morbosità in grado di far saltare istantaneamente gli orizzonti del privato, generando un primo e fatale cortocircuito.
Il tessuto urbano in cui i protagonisti vivono è quello di Singapore, demograficamente circoscritto in abitazioni ristrette e incasellate dentro quadri di vicendevole concatenazione visiva: a Yeo Siew Hua è sufficiente allargare di poco il campo per introdursi nelle vite private del vicinato della famiglia di cui racconta. Tutti vedono tutti, ognuno spia qualcosa nell’altro, nessuno è esente dall’essere scrutato. Che sia agganciato alla soggettività oppure oggettivato dai sistemi di videosorveglianza, lo sguardo di cui Stranger Eyes parla si tramuta in condizione ontologica di esistenza, sminuzzata dalla diversificazione dei punti di vista e consumata da un’impossibilità intrinseca di riunificazione.
Il primo inganno: il cinema
Ecco allora che Stranger Eyes inizia a muoversi, seminando indizi e false piste utili a chiamare in causa lo spettatore in questo stesso processo di trasformazione. Il codice condiviso del genere ci aveva fatto credere di poterci orientare nella storia, invitandoci a indirizzare il nostro vedere su un piano ben delimitato. Ma presto capiamo di aver sbagliato anche noi a circoscriverlo, di aver provato l’ingannevole presunzione di poterlo controllare.
Quando l’identità, o l’immagine, del voyeur (Lee Kang-Sheng) ci viene rivelata, panoramicando con alternanza da una vita all’altra, le verità si frantumano. Quando il mistero sulla figlia si risolve, l’impalcatura del film inizia a crollarci addosso. Yeo Siew Hua ci costringe allora a guardare altrove, verso quelle aree del non-visibile dove il patto da accettare con il film è di tutt’altro tipo: quello a cui stiamo assistendo è il limite massimo del perimetro scopico di un altro agente, registico e cinematografico. E se da Hitchcock in avanti ci è stato insegnato qualcosa sulla costrizione voyeuristica del nostro ruolo spettatoriale, è da qui che è necessario muovere i prossimi passi.
Stranger Eyes non è la storia della sparizione e il ritrovamento della bambina. Davanti ai nostri occhi va in scena lo sgretolamento del rapporto coniugale, vinto da un’irregolare conoscenza dell’altro, non più recintabile nello spazio percettivo costruito per la propria e altrui individualità. Le loro relazioni interpersonali si scoprono sempre più intermediate, separate da soglie alienanti e disturbanti, fisiche e visive, analogiche e digitali. La consapevolezza di essere osservati e la possibilità di auto-osservarsi, osservando a propria volta, smargina definitivamente le rispettive identità, dissipandole in piccole schegge di verità nascoste, omesse, rimosse o da reinterpretare.
Tale processo di vicendevole influenzabilità racconta di una profondissima vulnerabilità esistenziale, quella della coppia, esasperata dalla collettiva condizione di pedinamento visivo cui tutti siamo ormai sottoposti. Ma da questa ambivalente deviazione di punti dei vista, dove al cambiare della prospettiva cambia la realtà, rimane sempre esclusa una porzione di fuoricampo su cui è impossibile esternalizzare il nostro guardo – e dove, forse, è custodito l’unico rifugio delle proprie più soggettive verità.
Di immagini e di sintesi d’identità
Videosorveglianza, DVD, dirette Twitch e Instagram, finestre, binocoli, occhi e macchina da presa: Stranger Eyes sguscia tra i dispositivi contemporanei dello sguardo alternando soggettive, riproponendo situazioni narrative alterate da una regia che si accosta e discosta dai suoi punti d’ancoraggio, disallineando le rispettive scansioni temporali. Gli agenti dell’osservazione si inseguono in una continua distorsione del controcampo, riflettendo dinamicamente su come questo processo motivi imprevedibili variazioni cognitive e percettive.
Il cineasta indugia sugli strumenti dello sguardo, attiva sensorialmente lo spettatore attraverso un uso alternato dell’inquadratura fissa e della macchina a mano, restituendo l’inquietudine dell’essere osservati e il brivido dell’osservare senza mai esentarsi dal circuire l’immersività di un occhio esterno che ci comprime tutti al suo interno. Fiancheggiato dalla misura interpretativa dei suoi attori, Stranger Eyes si affida al dominio di un linguaggio del corpo che poco passa attraverso le parole, ma molto tramite gli occhi. Sentimenti, pulsioni, rimorsi e dolori dei personaggi viaggiano incontrastati tra le loro espressività e la loro prossemica, allacciati a un’umanità che si fa vuota e disintegrata immagine da analizzare, validare e riempire. Più reale del reale.
È in questo modo che Stranger Eyes arriva al suo punto, scollinando il consumismo visivo per riflettere su cosa è rimasto dell’identità personale. Nell’epoca corrente dell’iper-visibilità, scelta e subita, dell’altro e del sé non percepiamo che una sintesi su cui proiettiamo, immaginiamo e infiocchettiamo racconti, storie, possibilità di vita. E se il cinema è da sempre lo spazio in cui scagionare la nostra necessità di spiare ed esperire le esistenze altrui, che cos’è, di fatto, il nostro sguardo sul mondo? Cosa sono i rapporti intersoggettivi se non una lente sulla nostra interiorità? Cosa succede quando ci ri-guardiamo? Possiamo stabilizzare la nostra coscienza identitaria all’infuori dell’ambiguità che ci viene restituita dagli altri? Quanto è determinante il bisogno di sentirci visti?
Stranger Eyes non dà risposte univoche – d’altronde lo abbiamo capito, probabilmente neppure esistono. Piuttosto Yeo Siew Hua si apre a un finale in cui ogni interpretazione viene nobilitata, invitandoci a ragionare su come, ancora una volta e anche in questo caso, l’unica verità possibile sia quella su cui il nostro sguardo ha deciso di posarsi.
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Conclusioni
Con Stranger Eyes, Yeo Siew Hua orchestra un’ipnotica narrazione sulla natura pervasiva e frammentaria dello sguardo. Un'opera che ragiona, con i codici del thriller, il linguaggio del cinema e la moltiplicazione delle prospettive, sui limiti dell’immagine e gli slittamenti percettivi della realtà e delle identità. Sfuggente, aperto e sofisticato.
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Voto ScreenWorld