Quando al Sundance Film Festival nel 2018 è stato presentato Searching il così detto genere Screen Movie stava compiendo i primi passi. Nonostante questo o, forse proprio grazie all’effetto novità, il film è stato accolto con un grande successo ed una quantità notevole di curiosità da parte del pubblico e degli addetti ai lavori. Per non parlare, poi, del vantaggio economico. A fronte di un budget di appena 880.000 dollari, la pellicola è riuscita ad incassarne 75 milioni.
Un risultato che, con molta probabilità, riuscirà ad ottenere anche Missing, il nuovo thriller prodotto dalla Sony Pictures e diretto a quattro mani da Will Merrick e Nick Johnson. Fin dal momento in cui sono state rilasciate le prime immagini, infatti, il film è stato indicato come una sorta di sequel di Searching ma, soprattutto, come la consacrazione definitiva dello Screen Movie sul grande schermo.
Indubbiamente a rendere questo classico racconto di sparizione così innovativo sono proprio le tecniche narrative utilizzate ed una regia che, affidandosi completamente agli schermi di un computer e un cellulare, ha offerto un punto di vista diverso rispetto alla tradizione del genere. Per comprendere meglio, però, il potenziale espresso da questo progetto, andiamo a vedere più nel dettaglio alcune delle caratteristiche principali attraverso la recensione di Missing.
Genere: Thriller
Durata: 111 minuti
Uscita: 9 marzo 2023 (Cinema)
Cast: Tim Griffin, Nia Long, Storm Reid, Ken Leung, Amy Landecker
La trama: L’era dello Screen Movie
Pochi generi narrativi e cinematografici sono soggetti a cambiamenti ed evoluzioni come il thriller e il giallo. Nel corso del tempo, infatti, questi sono dovuti adattare soprattutto alle nuove tecniche d’indagini e reperimento prove. In sostanza, dunque, scrivere o rappresentare una vicenda ad alta tensione oggi prevede la conoscenza di una realtà puramente tecnica completamente diversa rispetto a quella esibita da Agatha Christie o Alfred Hitchcock.
Un’evoluzione che non coinvolge solamente la parte più strettamente forense ma che si allarga a macchia d’olio soprattutto nell’ambito dell’indagine. Questo vuol dire che quando i due registi Will Merrick e Nick Johnson hanno riflettuto sulla vicenda della giovane June e della madre, misteriosamente scomparsa durante un viaggio in Colombia, si sono trovati a confronto con lo schermo di un computer. Un mezzo che ha dato loro un’infinita possibilità di espressione artistica ma, soprattutto, ha aperto le porte ad un mondo investigativo del tutto nuovo.
A fare da guida al suo interno, ovviamente, è una rappresentante della generazione digitalizzata, abituata a confrontarsi con diversi dispositivi e conoscere le potenzialità che ognuno di loro offre. Così, June, senza abbandonare mai la sua stanza e la postazione del computer, riesce a mettere in piedi un’indagine di ricerca la dove fallisce miseramente quella dell’FBI. A sua disposizione ha la conoscenza delle abitudini quotidiane della madre e, soprattutto la possibilità di dedurre le chiavi d’accesso per entrare nella sua vita digitalizzata.
Ed è proprio in questo modo che il film esalta pienamente le caratteristiche dello Screen Movie. Un genere che va ben oltre la semplice registrazioni d’immagini attraverso un cellulare ma tende a cambiare completamente il punto di vista. Lo schermo del computer, infatti, si trasforma nella telecamera sul mondo. Rappresenta, al tempo stesso, lo sguardo di June e quello dello spettatore che, attraverso di lei, partecipa attivamente ai diversi momenti, anticipando o suggerendo la mossa successiva. Così, tra FaceTime, caselle vocali, localizzatori, profili e Google Maps, si ricostruiscono, un passo alla volta, gli elementi fondamentali di un mistero famigliare dimostrando come la tecnologia possa essere perfino creativa.
Costruire la suspense
Secondo Alfred Hitchcock, il padre del mistero al cinema, per costruire la suspense era necessario che lo spettatore fosse sempre un passo avanti al protagonista. Questo voleva dire informarlo, anche solo con un piccolo dettaglio, che qualche cosa sarebbe accaduto in un preciso momento. Una sorta di regola aurea che è stata utilizzata anche per Missing. In questo caso, però, il concetto di “conoscenza” è essenziale soprattutto riguardo gli strumenti utilizzati. Per tutta la durata del film, infatti, lo spettatore si siede letteralmente accanto a June o dietro le sue spalle ragionando insieme a lei. E per fare questo mette in atto la capacità di utilizzare i suoi stessi mezzi.
L’immedesimazione è immediata. Ci si sente trasportati all’interno di quella casa a Los Angeles a guardare il mondo esterno attraverso lo schermo di un computer. L’effetto è quello di un gioco di ruolo all’interno del quale si è chiamati a vestire i panni del diretto interessato. Un percorso che inizia con una sorta di tranquillità ma che, mano a mano, si fa concitato. Scoprire, aprire sempre più finestre sulla vita altrui, raggiungere luoghi lontani e riuscire perfino a creare relazioni. Una ricerca che, da un punto di vista assolutamente moderno, rappresenta il classico reperimento di prove ed indizi.
In questo caso, però, le impronte lasciate sulla scena del “crimine” sono di tutt’altro genere anche se hanno comunque lo scopo di portare alla soluzione finale. Ed in tutto questo insieme di messaggi e ricostruzione, i due registi lasciano quel segno tangibile, quell’elemento tanto caro ad Hitchcock grazie al quale mettere lo spettatore un passo avanti al protagonista. Un particolare tanto insignificante quanto essenziale per offrire una nuova visuale e, soprattutto, per trovare la giusta via d’uscita.
La vita segreta degli altri
Al di la dell’aspetto puramente tecnico riguardante il genere utilizzato ed i mezzi espressivi, il film ha la capacità di direzionare l’attenzione su una tematica importante: quanto affidiamo della nostra vita ad un computer o qualsiasi altro strumento tecnologico? Codici, numeri segreti, conversazioni private, vite parallele o, semplicemente, accesso alle carte di credito. La vita di ognuno viene codificata, incasellata e custodita all’interno di determinati sistemi che crediamo e pensiamo sicuri. Ma quanto, effettivamente, lo sono? Il mondo computerizzato ha cambiato non solamente le consuetudini sociali ma, soprattutto, il concetto di privacy. Il fatto che un file non sia visibile o che uno scambio sia custodito all’interno di chat con accesso limitato, non vuol dire che siano al sicuro da sguardi indiscreti.
Più o meno inconsapevolmente, ognuno di noi pone la propria esistenza al giudizio e al vaglio degli sguardi altrui, avendo sempre meno zone realmente private in cui sentirsi al sicuro. Un aspetto, questo, che aumenta notevolmente il livello di ansia ed inquietudine all’interno del film. Perché, se da una parte lo svelamento di alcuni segreti è emozionante e gratificante ai fini della vicenda, dall’altra ci si rende conto di essere potenzialmente violati nelle nostre identità in qualsiasi momento. Perché, grazie a strumenti come Google Earth, anche un gesto privato come una proposta di matrimonio potrebbe diventare di pubblica condivisione.
La recensione in breve
Utilizzando lo stile di uno screen movie, questo thriller riesce a rispettare le regole classiche del genere ma, al tempo stesso, a rendere più attuale l'indagine e la ricostruzione degli eventi. Così, senza abbandonare mai la sua postazione di fronte al computer, la giovane June diventa la guida di un mondo impalpabile ma reale come solo quello digitale può essere. Assume il ruolo di voce narrante il cui fine è avvolgere e coinvolgere lo spettatore in una tensione che cresce in modo costante ed esponenziale fino ad arrivare all'esplosione finale. Ma, come spesso accade, non è la meta ciò che conta ma il viaggio stesso.
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Voto ScreenWorld